Il 1° marzo 2022 il “Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza” ha pubblicato le sue proposte per riformare il settore della Long Term Care (LTC) in Italia. Il Sistema Nazionale Assistenza agli Anziani dovrebbe prevedere, secondo le 46 organizzazioni che fanno parte del Patto, l’introduzione di un Secondo Pilastro Integrativo, con funzione complementare rispetto alle prestazioni assicurate dal finanziamento pubblico dei livelli essenziali. In questo senso, la previsione di un Secondo Pilastro comporterebbe la riorganizzazione delle attuali fonti di finanziamento delle misure per la non autosufficienza, mediante l’adozione di logiche mutualistiche e solidaristiche.
Ne abbiamo parlato con Stefano Cecconi del Dipartimento Welfare della CGIL che sostiene come in questo momento sia necessario concentrarsi esclusivamente sulle risorse pubbliche – il cosiddetto Primo Pilastro – lasciando sullo sfondo il Secondo.
Secondo lei la predisposizione di un Secondo Pilastro integrativo è rilevante? Quale può essere il suo contributo nella riforma della Long Term Care?
Immagino che la mia posizione potrà sembrare un po’ spiazzante, ma credo che al momento, in attesa di definire il Primo Pilastro, sia inopportuno discutere del Secondo. Dopo anni di mobilitazioni, durante i quali le persone non autosufficienti hanno dovuto auto-organizzarsi (il riferimento è al cosiddetto “welfare-fai-da-te”, nda), manca ancora una Legge Quadro. Per fortuna si tratta di un tassello previsto nel PNRR e, quindi, una riforma dovrà essere approvata a breve. Per questo credo che sia anzitutto necessario domandarsi cosa sia il Primo Pilastro, quali sono i livelli essenziali di assistenza e quali le prestazioni sociali garantite a tutta la popolazione. Trattandosi di diritti esigibili, e non solo di un trasferimento monetario, come nel caso della Indennità di Accompagnamento, non vediamo altra soluzione se non quella della fiscalità generale. Questo è il primo aspetto su cui concentrare l’attenzione.
Solo con la certezza di disporre di risorse potremo inserire le persone in un percorso di presa in carico multidimensionale, capace di sostenere la vita autonoma al di fuori di una logica eccessivamente assistenziale o basata su forme di residenzialità “pesante”.
Dobbiamo quindi sostenere progetti finalizzati alla vita indipendente, e non alla residenzialità.
Certamente ci sono situazioni “limite”, come nel caso delle demenze o di rilevanti deficit cognitivi, dove le persone non possono essere seguite in ambienti domestici, ma tra questi casi e le risposte standard, basate sulla residenzialità e l’istituzionalizzazione, ci sono molte soluzioni, spesso non praticate a causa di carenze di personale o di culture organizzative arretrate.
Fatto questo, potremo discutere dell’utilità e del ruolo di un Secondo Pilastro Integrativo, destinato unicamente a coprire le prestazioni non garantite dai LEA (Livelli Essenziali di Assistenza, ndr) e ai LEP (Livelli Essenziali delle Prestazioni, ndr). In altre parole, il Secondo Pilastro non deve essere un trucco per coprire le carenze dello Stato nel garantire i diritti di cittadinanza. E’ soltanto a queste condizioni che, secondo me, possiamo aprire una riflessione con la platea di lavoratori e lavoratrici che potrebbero, con il contributo delle aziende, costituire un pilastro integrativo.
Quindi per lei è necessario che il Secondo Pilastro Integrativo sia inserito in una seconda fase della riforma, successiva a quella relativa alla costruzione del Primo Pilastro di titolarità pubblica?
Si. Personalmente in questa fase avrei lasciato il Secondo Pilastro sullo sfondo. Non per un ragionamento di merito ma più per una questione politica, perché rischia di confondere le acque o di dare alibi a chi non ha nessuna intenzione di organizzare un sistema universale, garantito quindi per tutti. Lo considero dunque un errore politico, perché adesso è meglio che la discussione si concentri sul Primo Pilastro.
Successivamente potremo confrontarci su come orientare verso fini sociali parte delle ricchezza che viene prodotta nel Paese. Organizzando e disciplinando, in forme collettive, quei servizi che oggi sono acquistati in maniera individuale in un mercato che è quasi selvaggio. Ma di questo dovremo discutere dopo. Altrimenti c’è il pericolo di equivocare i termini, con il rischio di far passare l’idea che forse lo Stato potrebbe decidere di non garantire a tutti i cittadini alcuni loro diritti.
A questo proposito, in tempi neanche troppo lontani, il sindacato ha organizzato forme di mutualità per supplire alle carenze dello Stato che non voleva, o poteva, assicurare ai cittadini. Negli anni abbiamo fatto numerosi passi in avanti, come ad esempio con la Legge 328 del 2000, ma il percorso non è ancora concluso.
C’è poi un altro aspetto che dobbiamo considerare. Siccome il cosiddetto welfare contrattuale gode di un vantaggio economico a carico della fiscalità generale, potrebbe essere rischioso parlare di un Pilastro Integrativo senza aver ancora approvato un Primo Pilastro, finanziato dal pubblico.
Quali sono secondo lei le maggiori criticità nell’introduzione di un Secondo Pilastro Integrativo?
Io credo che lo Stato non possa, e non debba, occuparsi di organizzare e finanziare la vita privata delle persone anziane. Ma trovo bizzarro che non si pensi di valorizzare la componente dell’invecchiamento attivo e il ruolo sociale degli anziani, che finisce comunque per condizionare i consumi sociali. In questa prospettiva preferirei un welfare contrattuale che finanzi la vita attiva e culturale delle persone, piuttosto che prestazioni sociosanitarie sostitutive dei Livelli Essenziali.
Inoltre, sebbene questa discussione riguardi principalmente i lavoratori strutturati, non possiamo pensare però di escludere gli altri. E su questi aspetti dobbiamo fare una riflessione sui costi legati alle agevolazioni fiscali dei contratti.
Perché il sindacato ha l’obbligo di impegnarsi per tutelare tutti i lavoratori, ma deve perseguire obiettivi realistici.
Quindi, in una fase come questa, in cui finalmente stiamo parlando di Legge Quadro sulla Non Autosufficienza, dobbiamo principalmente concentrarci sul finanziamento pubblico dei diritti di cittadinanza, che sono rivolti a tutti: lavoratori strutturati o non, occupati, precari o disoccupati.
In questo senso, è a mio parere un errore pensare a forme di welfare integrativo, come nel caso appunto del Secondo Pilastro, con l’idea che, anche nel lungo termine, tali prestazioni non saranno garantite dal sistema pubblico e da un uso intelligente delle risorse.
Alla luce di quanto detto quali accorgimenti bisognerebbe tenere in considerazione nell’introduzione di un Secondo Pilastro Integrativo?
Le agevolazioni sono legittime, ma dobbiamo calcolare e ponderare bene i costi fiscali, che ricadono su tutti.
E non dimentichiamo che ci sono gruppi di interesse che da una modifica del quadro legislativo hanno tutto da guadagnare.
Nel periodo in cui ho collaborato con la CES, la Confederazione Europea dei Sindacati, ho incontrato numerosi esponenti dei fondi di investimento interessati alle modifiche delle norme rispetto agli investimenti a lungo termine. Il loro obiettivo era però legato ad investimenti su quella che viene definita residenzialità “pesante” e non sul sostegno alla vita autonoma e indipendente. Perché è lì che si produce profitto ed è lì che può nascere l’interesse di assicurazioni e investitori privati.
Non sono quindi contrario per principio al welfare integrativo, che anche il nostro sindacato persegue, ma dobbiamo avere onestà intellettuale nel valutare attentamente i costi e i benefici, evitando che tali investimenti – direttamente o indirettamente – possano andare a discapito dei più deboli e dell’universalità del sistema. Per questo credo che prima di tutto sia necessario approvare un Primo Pilastro che definisca livelli essenziali e modalità di finanziamento. Al contrario, ritengo che integrare da subito un Secondo Pilastro indebolisca la proposta complessiva.
fonte: Secondo Welfare