Il lato oscuro della meritocrazia. di Andrea Boitani

La meritocrazia reale assomiglia molto a un’aristocrazia ereditaria, come dimostrano i due paesi più meritocratici: Usa e Gran Bretagna. Giustificare le disuguaglianze sulla base di diversissimi livelli di talento e merito è una condanna per la medietà.

Meritocrazia ereditaria?

Definire il merito è difficile, come si è discusso in un altro articolo. Lo si ricollega al talento e allo sforzo, fino a riconoscerlo nell’apprezzamento del mercato, assumendo che tutti abbiano le stesse opportunità.

Il mercato non ha particolarmente a cuore l’uguaglianza (che sia dei punti di partenza o dei punti di arrivo) e neppure l’equità. Ed è ampiamente noto che le società più dichiaratamente “meritocratiche” (USA, Gran Bretagna), oggi, abbiano livelli di disuguaglianza molto elevati, vicini a quelli delle società di inizio Novecento, più fondate sull’aristocrazia del sangue e sulle relazioni che sul merito. Considerato che l’ideale di uguali opportunità è ben lungi dall’essere realizzato, è possibile sostenere che la meritocrazia reale sia molto lontana dal suo ideale (ammesso che fossimo in grado di definirlo sul serio) e assomigli molto a un’aristocrazia ereditaria. I conti di Daniel Markovits (The Meritocracy Trap, 2019) sono, a questo proposito, devastanti. Egli ha provato a calcolare quanto valga, in termini di lascito ereditario, l’investimento che una famiglia dell’élite americana fa per l’istruzione dei propri rampolli. Markovits si è concentrato sulla differenza di spesa tra una tipica famiglia ricca e una tipica famiglia della classe media, ipotizzando che la somma corrispondente alla differenza venga versata, anno dopo anno, in un fondo vincolato ereditabile dai ragazzi alla dipartita dei genitori. Nel frattempo, se investito oculatamente, il fondo darebbe rendimenti a loro volta accumulati. Con qualche ipotesi ragionevole sulla durata della vita dei genitori, sui rendimenti dei fondi e altre variabili, si ottiene che “l’investimento in capitale umano fatto da una tipica famiglia ricca, in eccesso rispetto a quello fatto da famiglie della classe media, è oggi equivalente a un’eredità nei dintorni dei dieci milioni di dollari per ogni ragazzo (o ragazza)”. Una somma enorme che promuove “le ambizioni dinastiche di una famiglia dell’élite” (p. 146). La questione si può guardare anche misurando l’entità dei debiti contratti per completare gli studi universitari. Ai figli dei ricchi gli studi sono pagati dai genitori. I figli dei poveri e dei ceti medi, che decidano di continuare a studiare, invece, si indebitano e cominciano le loro carriere lavorative zavorrati da quei debiti.

Entrare in una università di élite

La crescente disuguaglianza rende massimamente importante chi entra in quale università prestigiosa. Nonostante tutto, in America (il retorico regno della meritocrazia), essere ammessi in una grande università ha più a che fare con il vantaggio del punto di partenza in termini di reddito e ricchezza che con il “merito”, comunque lo si voglia definire. Ne segue che i profumati stipendi (e bonus) ottenuti dai laureati delle grandi “scuole” sono ancora oggi più dovuti alle “dispari” opportunità garantite dalla posizione economica e sociale della famiglia di origine che al merito individuale. Dopo svariati decenni di meritocrazia, oggi oltre il 70 per cento degli studenti che frequentano i cento college più competitivi (e costosi) d’America proviene dal quarto più alto della scala dei redditi; solo il 3 per cento dal quarto più basso. Se la tua famiglia fa parte del “top 1 per cento” dei redditieri hai una probabilità 77 volte superiore di entrare in un college dell’Ivy League di un tuo coetaneo la cui famiglia faccia parte del 20 per cento più povero. Proprio come diceva Tony Atkinson (Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, 2015), la disuguaglianza dei punti di arrivo si trasforma in disuguaglianza dei punti di partenza della generazione successiva e così via ereditando. Il supposto “merito” finisce per essere una giustificazione zoppa di una realtà assai più brutale.

E poi: siamo sicuri che l’aver frequentato con successo le migliori università del mondo dia automaticamente a un individuo la patente di “meritevole”? Di nuovo, tale patente dipende dalla definizione che diamo di merito. Se, per esempio guardiamo all’insieme di virtù civiche e saggezza pratica che, secondo Aristotele, rende un individuo “meritevole” di governare la “polis”, perseguendo il bene comune, non possiamo essere certi dell’equipollenza tra merito e laurea a Harvard, Yale, Oxford o Cambridge, come la Storia si è peraltro incaricata di ricordarci più volte.

Il lato oscuro della meritocrazia

Il lato oscuro della meritocrazia, da un punto di vista morale, è così riassunto da Michael Sandel: “il principio che il sistema premia il talento e il duro lavoro incoraggia i vincitori a considerare il proprio successo quale frutto delle proprie azioni, una misura della propria virtù e a guardare dall’alto in basso chi è meno fortunato di loro. L’arroganzameritocratica riflette la tendenza dei vincitori a inebriarsi troppo del proprio successo, a dimenticare la fortuna e la buona sorte che li ha aiutati sul cammino” (Sandel, 2020, p. 25, anche p. 123). Riservare elevata considerazione sociale (e giustificare le disuguaglianze) sulla base di diversissimi livelli di talento e merito è un modo di umiliare non solo i poveri ma anche chi sta a metà della scala e non riesce a salire. È una condanna per la medietà

Come ha scritto papa Francesco, “La meritocrazia affascina molto perché usa una parola bella: il “merito”; ma siccome la strumentalizza e la usa in modo ideologico, la snatura e perverte. La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della diseguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla diseguaglianza”. Ma se una “società buona” è quella priva di grandi diseguaglianze, allora la caratterizzazione di ciò che è meritorio deve valutare se le azioni (per non dire le persone) candidate a essere considerate meritevoli generino più o meno disuguaglianze (Sen, 2000). Così, però, il merito perderebbe il suo ruolo di giustificazione delle disuguaglianze esistenti, ma perderebbe anche la base su cui viene oggi misurato.

Le molte storture della meritocrazia “reale”, cioè realizzata, sono riconosciute anche da un entusiasta propugnatore del merito qual è Adrian Woolridge (The Aristocracy of Talent, 2022). Non appare appropriato rispondere alle storture argomentando come la meritocrazia “ideale” – essenzialmente ridotta a un confronto sulle competenze specifiche o sui meriti “non morali” – ne sia priva (Marco Santambrogio, Il complotto contro il merito, 2021), oppure dicendo che, pur con tutti i suoi difetti, la meritocrazia è il meglio che ci sia (così fa proprio Woolridge). Questi atteggiamenti somigliano molto, rispettivamente, a quelli di chi oppone ai difetti del mercato la constatazione, piuttosto ovvia, che in un mercato perfetto quei difetti non ci sono o a quelli di chi sostiene che i fallimenti dello stato possono essere ben più grandi di quelli del mercato e che quindi lasciare quest’ultimo a se stesso è, in definitiva, il minore dei mali.

fonte: lavoce.info

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