In meno di sei mesi, due giovani uomini sono morti a Roma durante il ricovero nel servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc). La magistratura indaga, gli operatori e gli amministratori tacciono, come se queste morti siano solo un problema giudiziario e non un segno ulteriore delle gravi carenze di persone e mezzi che da anni vengono denunciate, delle scelte sbagliate di politica sanitaria che si riproducono per inerzia e del rigenerarsi incontrastato, in forme nuove, di culture e pratiche che hanno radici nel manicomio.
Questi i fatti.
All’alba dello scorso sabato 7 maggio LD, 36 anni, viene trovato morto in un letto del Spdc dell’ospedale di Monterotondo, piccolo comune nella Asl Roma5. L’uomo, un italiano residente nel Lazio, era ricoverato da alcuni giorni, proveniva da una comunità terapeutica privata e accreditata, la Reverie di Capena, era in libertà vigilata e sembra non fosse in trattamento sanitario obbligatorio (Tso).
Le circostanze della sua morte non sono chiare. I familiari non vogliono parlare, gli operatori sono chiusi in un silenzio intimorito ma da giorni circolano domande e sospetti.
È certo che LD era stato legato al letto oltre che sedato, ma era legato anche al momento della morte? Il particolare non è irrilevante dato che la sommatoria di contenzione meccanica e farmacologica può indurre, com’è noto, effetti deleteri nel corpo di una persona, oltre che nel suo sentire.
E come mai i “sistemi di sicurezza attiva e passiva”, che il servizio vanta insieme alle “finestre antisfondamento”, non hanno rilevato che qualcosa non andava? O forse i monitor nessuno li guardava perché era una notte tranquilla e non ci si doveva difendere dai ricoverati?
La magistratura, che ha disposto l’autopsia di LD, potrà rispondere a queste domande ma una riflessione pubblica sui servizi psichiatrici a Roma non dovrebbe aspettare il lavoro di giudici e periti: come è stato denunciato più volte, ci sono elementi sufficienti per definire drammatico il malfunzionamento di molti Dipartimenti di salute mentale, e del resto un campanello di allarme era già suonato meno di sei mesi fa, per chi voleva sentirlo.
Il 28 novembre 2021, infatti, nel Spdc dell’ospedale San Camillo della Asl Roma1 era stato trovato morto Wissem Abdel Latif, 26 anni, tunisino, pesantemente sedato e legato per oltre 60 ore in un letto “soprannumerario” nel corridoio del reparto.
Abdel Latif era approdato a Lampedusa il 2 ottobre 2021, il 13 era stato trasferito al Centro per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria e il 23 novembre, con una pesante quanto affrettata diagnosi psichiatrica, era stato inviato all’ospedale Grassi di Ostia dove aveva subito una contenzione meccanica di 40 ore e poi il 25 era stato trasferito al San Camillo, dove era stata confermata diagnosi e contenzione senza che lui potesse parlare con qualcuno che conosceva la sua lingua.
Abdel Latif resta così, legato, sedato e isolato per 60 ore. Il 24 novembre il giudice sospende il provvedimento di respingimento e trattenimento presso il Cpr, dunque Abdel Latif deve essere rimesso in libertà ma nessuno glielo dice, e quando finalmente il mediatore culturale arriva al San Camillo, il giovane è così sedato che non si riesce a parlare con lui.
Il 28 novembre Abdel Latif muore. L’autopsia viene eseguita senza informare i familiari, che sapranno della morte del giovane solo il 3 dicembre dall’ambasciata tunisina. L’indagine in corso dovrebbe concludersi a breve, il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”, di cui i familiari fanno parte, cerca di non far cadere il silenzio su questa vicenda di una crudeltà che lascia senza parole.
La psichiatria violenta, che mai è andata fuori gioco, sta prendendo il sopravvento di nuovo. Ritorna forte l’ossessione del controllo in nome di una sicurezza che non ha mai evitato gli “incidenti”, come si diceva nei manicomi; dilaga, in parte complice il Covid, la miseria dell’affollamento, dei turni massacranti, dell’incuria verso la legalità e il rispetto delle persone.
Ma quando gli Spdc funzionano come manicomi in sedicesimo è perché gli ambulatori territoriali usurpano il nome di centri di salute mentale, sono luoghi frettolosi di controllo che ignorano la vita delle persone e alimentano il circuito delle strutture dove metterle. È necessario investire sulla trasformazione di questo sistema di servizi per contrastare la psichiatria violenta.
Un anno fa, il ministro della Salute ha proposto alle Regioni un documento che indica come superare in tre anni l’uso della contenzione nei luoghi di cura attraverso una serie di cambiamenti nei servizi e nel loro funzionamento, anche vincolando risorse a questo scopo. Ma il documento giace indiscusso e ci stiamo abituando a pensare che sia pura fantasia passare dai documenti, e anche dalle leggi, alle decisioni e alla politica, almeno quando si tratta di prendere certi diritti sul serio.
fonte: il manifesto