“È una drogata”. “Esattamente!” È un dialogo del film “Gli Stati Uniti contro Billie Holiday”, in questi giorni nelle sale. Si sta parlando proprio di lei, Lady Day, ma in effetti il problema per Harry J. Anslinger e il Federal Bureau of Narcotics non è la “tossicomania” in sé. Il problema è una canzone, che Billie Holiday ha cominciato a cantare nel 1939: Strange Fruit. La canzone è la messa in musica di una poesia cruda e agghiacciante di Abel Meeropol, lo “strano frutto” sono i corpi neri che penzolano e marciscono appesi ai rami dei pioppi del profondo sud. Una denuncia pubblica della segregazione razziale e dei linciaggi degli afro americani nel “prode sud”, che da lì in poi vietò quasi tutti i suoi spettacoli.
Il film ha il pregio di raccontare un lato misconosciuto di una delle più grandi cantanti che abbia calcato il palcoscenico jazz e blues. Quello del suo impegno politico, che anche se non si è mai tradotto in attivismo o militanza, è oggi ritenuto una delle denunce più forti del razzismo negli Stati Uniti a cavallo della Seconda guerra mondiale.
“Quella Holiday sta inducendo molti a pensare cose sbagliate”. La ricostruzione cinematografica – tratta dal libro di Johann Hari Chasing The Scream. The First and Last Days of the War on Drugs – contribuisce a svelare come il proibizionismo sulle droghe sia un eccezionale strumento a disposizione del potere per colpire e marginalizzare il dissenso e le minoranze.
Per chi ha conosciuto la splendida voce di Billie Holiday nella interpretazione di The man I love riscoprirla per Strange Fruit e per la criminalizzazione che ha subito a causa dell’uso di droghe è forse spiazzante, ma è anche un modo di rendere giustizia alla sua esperienza di vita. Una donna che, come ha raccontato Angela Davis, trovò proprio nella poesia di Abel Meeropol la sua “ragion d’essere”. Le permetteva di “distinguere la gente veramente in gamba da quella col cervello bacato”, scrisse ne “La signora canta il blues”, la sua autobiografia pubblicata in Italia da Feltrinelli. Ma soprattutto raccontava di lei, nipote di schiava, figlia di un musicista morto perché l’ospedale non l’aveva curato in quanto afroamericano. Raccontava della sua comunità, non più schiava ma vittima di quell’ipocrita “separati, ma uguali” che solo Rosa Parks ed il movimento dei diritti civili riuscì a scardinare quasi 20 anni dopo.
Sono gli anni della campagna di Anslinger contro la marijuana, quello per cui “la maggior parte dei fumatori di marijuana sono negri, ispanici, filippini, musicisti jazz e artisti. La loro musica satanica è guidata dalla marijuana e il fumare marijuana da parte delle donne bianche le fa desiderare di cercare rapporti sessuali con negri, artisti e altri”. Billie comincia a fumarla, la cannabis, appena adolescente mentre insegna alla madre, di solo 13 anni più vecchia, a leggere e scrivere. Una madre che “dava retta alle storie cretine messe in giro riguardo ai disastrosi effetti della marijuana e credeva più a queste panzane che a quello che poteva vedere con i propri occhi”, si legge nella sua biografia. Non ha certo un’infanzia facile: il padre abbandona presto la famiglia, lei viene violentata a 11 anni, poco dopo comincia a prostituirsi finendo, senza colpe, anche in riformatorio. Poi l’incontro con la musica che diventerà il suo rifugio e che la consacrerà nel mito.
Billie Holiday morirà il 17 luglio 1959, a 44 anni, ammanettata ad un letto di ospedale, con le cure sospese ed in stato di arresto perché tossicomane. Una vita troppo breve, fatta di grandi successi musicali, amori sbagliati, di alcol, droghe e razzismo. Fatale però fu lo stigma e la persecuzione politica, proprio da parte di quell’Anslinger che mai le perdonò di aver cantato Strange Fruit.
fonte: il manifesto – Fuoriluogo