Intervento di Silva Bon al VI Congresso WAPR Italia
Vorrei presentarmi come storica, ma soprattutto come una cittadina, come una persona che ha avuto bisogno dell’aiuto e del supporto della rete dei Servizi presso il Dipartimento di Salute Mentale di Trieste.
È stato un lungo arco di tempo, durato più di trent’anni, in cui ho attraversato situazioni, spazi diversi, in forme altamente drammatiche e dolorose; ho conosciuto la sofferenza personale e ho riconosciuto quella delle persone che come me afferivano ai Centri di Salute Mentale. Ancora oggi sono collegata, come socia attiva alla Conferenza Basaglia, che lavora in campo internazionale per la Salute Mentale nel Mondo (l’acronimo COPERSAMM penso sia conosciuto da tutti); inoltre faccio parte della Redazione del Forum Salute Mentale; mi impegno come volontaria nelle Associazioni dei familiari e degli utenti, radicati sul territorio nazionale e collaboro in Associazioni femminili impegnate nella promozione sociale.
Partendo da questo punto di vista, dal basso, da chi ha bisogno, penso che l’indicazione del titolo di questa Tavola Rotonda dovrebbe essere capovolto: si dovrebbe parlare non di bisogni individuali, bensì di complessità di domande individuali, e purtroppo, molto spesso, si dovrebbe denunciare la povertà delle risposte, la unicità di una risposta di intervento clinico e farmacologico.
Assieme a molti compagni di viaggio, ho avuto l’opportunità di crescere, di imparare, di cambiare radicalmente la mia visione della vita.
Ricordo l’epifania di volti contratti dall’angoscia, aprirsi finalmente all’Altro, alla possibilità di relazione con l’Altro, alla possibilità di parola, di comunicazione e di interscambio, perfino di sorriso e di aiuto reciproco, tra pari. Questo è potuto avvenire soprattutto all’interno di gruppi, di piccole comunità costruite con la co-progettazione di operatori, familiari, utenti. Si tratta di esperienze collettive che hanno dato adito ad approfondimenti di conoscenze interpersonali, a relazioni amicali, al superamento di pregiudizi reciproci; in realtà sono state forme di intervento psico-sociale, forme necessarie a vincere e superare proprio l’isolamento, la chiusura, l’impossibilità, di cui soffrono le persone con esperienza di sofferenza mentale.
Io anni fa non riuscivo ad uscire in strada, non potevo guardare nessuno in faccia, eppure dovevo lavorare, in un continuo stato di tensione, di panico, che mi sfibravano e mi riducevano a una larva.
Ricordo perfettamente la prima volta che ho trovato il coraggio di esprimere i pensieri, le idee che si affollavano nella mia testa, in uno spazio ristretto e che oggi so accogliente, ma che allora i miei fantasmi ingigantivano pericolosamente come uno spazio pubblico e giudicante: è stato in un gruppo femminile, improntato alla Salute mentale di genere; il gruppo era condotto da una psichiatra che ci parlava del mito di Demetra e Persefone, del rapporto tra madre e figlia. Per me quel momento ha rappresentato una grande conquista, un primo piccolo passo verso la recovery, perché ho preso coscienza che ero in grado di parlare, di comunicare con il mondo esterno, senza essere zittita o rimproverata.
Sono ancora grata a quella psichiatra per avermi concretamente aiutata e con lei ho un rapporto di stima e di empatia; lei mi ha invitata a partecipare a molte riunioni, anche aperte ai familiari, oltre che agli utenti, e negli anni ho acquistato sempre più sicurezza e fiducia nelle mie possibilità.
Un nuovo approccio verso la vita mi ha aiutato perfino anche nel mio lavoro di storico, perché oggi trovo il coraggio di dire quello che penso in maniera più libera e spontanea. Non canto vittoria, non ho conquistato nessuna meta, sono in cammino, ancora debole e fragile.
Il processo evolutivo di crescita e di rispetto di me stessa è stato molto lungo, con frequenti cadute, passi falsi, errori, fatica esistenziale: ho proceduto come un gambero, due passi indietro e uno avanti, e le mie mille andate, anche volontarie, in qualsiasi ora del giorno e della notte, al Centro di Salute Mentale o addirittura al Servizio di Diagnosi e Cura, hanno segnato di sofferenza la mia vita.
Là, però, ho trovato accoglienza, una parola buona, un letto dove finalmente riposare, un bicchiere d’acqua offerto con un sorriso preoccupato perché stavo per svenire, e una mattina speciale perfino il ricambio di scarpe per i miei piedi piagati dall’incessante andare: un paio di zoccoli di gomma, comodi, con cui potevo riuscire a camminare senza troppo dolore. Sono tornata, qualche giorno dopo, a ringraziare quell’infermiere, perché il suo gesto semplice, pratico, concreto davvero ha rappresentato un aiuto per me, e io ho capito tutta la sua umanità.
Frequentando le Associazioni di familiari e di utenti, mi sono confrontata con altre esperienze al limite: ad esempio quelle delle madri e dei padri, che mi sembra di poter capire, con i quali condivido la sofferenza, perché anche io ho due figli e so per esperienza so che il dolore più grande per un genitore è vedere soffrire il proprio figlio, e non riuscire a porre rimedio.
In varie occasioni ho sentito i familiari che testimoniavano gratitudine per l’aiuto dato dagli operatori ai propri figli; sono gli infermieri, gli assistenti sociali, i tecnici della riabilitazione, i medici, che hanno operato al loro fianco, come sostegno perché questi giovani riuscissero a finire un curriculum scolastico, ad esempio; oppure riuscissero ad affrontare l’impegno di un lavoro; o ancora, a inserirsi in un contesto sociale facendo musica o giocando a calcio, o camminando in montagna, o condividendo la festa di una pizza in un locale pubblico. Molti genitori hanno dichiarato pubblicamente, a gran voce e con forza, che questo atteggiamento formativo, da parte dell’équipe medica, questo indirizzo di aiuto verso l’assunzione di responsabilità e verso il raggiungimento di conquiste positive, per i loro figli più fragili, ha costituito e consolidato Salute mentale, molto più dell’assunzione dei farmaci.
Ma ho sentito anche la denuncia di molte persone, donne e uomini, nei gruppi operativi di utenti, che si stanno formando in Italia, denunce di abusi perpetrati dal potere psichiatrico. Perché la Psichiatria ha un potere totale sulle persone, un potere giudicante e oggettivante, direi assoluto, quando non è pratica di Salute Mentale di Comunità.
E ancora si muore di Psichiatria. E non si ricorda che il TSO non è un mandato di cattura. Come non è cura, cura medica, legare le persone, contenerle meccanicamente o farmacologicamente; o addirittura praticare l’elettroschok.
La mia paura, la nostra paura, di noi utenti, è che tutto questo stia ritornando in Italia, e forse c’è già. Per questo motivo ci sono gruppi di utenti aggregati che cercano di essere più attivi là, dove le pratiche non sono buone pratiche, e si disconosce il valore dell’insegnamento basagliano, che non è una ideologia obsoleta, datata, irripetibile, come dicono molti. Ma ha costituito e costituisce anche oggi, in molte parte, in Italia e nel Mondo, un punto fermo da cui partire per una progressione ulteriore.
Ci sono oggi giovani operatori, psichiatri specializzandi, che cercano di dare un senso al loro lavoro: vogliono uscire dall’isolamento, per vincere il pericolo di essere fagocitari dall’impossibilità e dall’immobilismo dell’inferno che è il manicomio.
Noi utenti temiamo il ritorno camuffato e subdolo del manicomio. Io ho vissuto questa esperienza devastante di giorni di ricovero in due manicomi, a Praga e a Klagenfurt. Sono una sopravvissuta. Per questo, per il ricordo di quei momenti che a volte mi sommerge come un’onda, si abbatte su di me, suscita angoscia e pianto, penso che valga la pena di testimoniare e di lottare in nome del principio del rispetto e del diritto alla vita.
l’Autrice Silva Bon si occupa di Storia e Letteratura
fonte: forum salute mentale