Il solo, in decenni, a esercitare la prerogativa dei giudici costituzionali di visitare le carceri senza autorizzazione. Quello che vide, non lo dimenticò. Negli anni successivi continuerà a prestare volontariamente assistenza legale ai detenuti di Bollate. Da leggere e rileggere la sua prefazione al libro “Contro gli ergastoli”.
1. Valerio Onida ci ha lasciato. Non è una perdita qualsiasi per il diritto costituzionale: infatti, se sul piano della pietas umana tutte le morti sono eguali, su piani differenti alcune pesano più di altre. E la scomparsa di Onida pesa come un macigno, pensando – con ammirazione e riconoscenza – ai risultati della sua ricerca scientifica, alle modalità del suo insegnamento universitario, agli incarichi istituzionali rettamente onorati, al suo modo di esercitare la professione legale.
Sono e saranno in tante e in tanti a ricordarlo. Le istituzioni e la dottrina sapranno farlo nelle forme e nelle sedi più appropriate, e sarà un ricordo corale giustificato come non mai.
Ma non è di questo che, qui, intendo scrivere. Di Valerio Onida vorrei dire due o tre cose che non tutti sanno di lui, e che è giusto diventino invece patrimonio collettivo, anche tra i non addetti ai lavori. Un modo breve e laterale ma egualmente autentico di ricordare – insieme, perché inscindibili – il giurista e l’uomo, entrambi fuori del comune.
2. Quattro anni fa, con grande sorpresa di tutti – e con il borbottio di tanti – la Corte costituzionale è uscita da Palazzo della Consulta per intraprendere un viaggio nelle carceri italiane. A spingerla, una convinzione scolpita nei fondamentali del costituzionalismo liberale: come disse il suo Presidente di allora, Giorgio Lattanzi, “la Costituzione per la persona, per qualunque persona, anche per chi è detenuto, è una protezione, uno scudo”. Far capire a tutti che la Costituzione è a garanzia di tutti: con questo intento, le giudici e i giudici costituzionali sono così entrati a Rebibbia, San Vittore, nel carcere minorile di Nisida ed in quello femminile di Lecce, negli istituti penitenziari di Terni, Genova-Marassi, Padova, Bologna, Firenze-Sollicciano, Napoli-Secondigliano, Potenza. Di quel “viaggio in Italia” esiste anche una riuscita narrazione cinematografica, per la regia di Fabio Cavalli, di cui raccomando la visione (la si può recuperare su RaiPlay).
Un’iniziativa senza precedenti, è stato detto. È certamente vero, specialmente nel suo tratto istituzionale ed ufficiale. Ma non è del tutto vero. L’ordinamento penitenziario, dal 1975, prevede un elenco di soggetti ammessi a visitare gli istituti di pena “senza autorizzazione” e, tra questi, annovera sia il Presidente che i giudici della Corte costituzionale. Eppure, per decenni, tale disposizione è rimasta lettera morta. Con un’unica scintillante eccezione: Valerio Onida.
Lo ricorda opportunamente Marco Ruotolo negli scritti in suo onore (Alle frontiere del diritto costituzionale, Giuffrè, 2011, p. 1781): in occasione dell’istruzione di una quaestio avente ad oggetto il regime penitenziario dell’art. 41-bis, il giudice Onida visitò la sezione del carcere milanese di San Vittore che “ospita” detenuti sottoposti al regime speciale del c.d. “carcere duro”. Con la sua scelta più unica che rara, memore dell’insegnamento di Piero Calamandrei sulle condizioni delle prigioni italiane (“Bisogna aver visto”), Onida testimoniava al meglio quella prossimità che è il tratto costitutivo della magistratura di sorveglianza e che – da giudice delle leggi chiamato a garantire la Costituzione dietro le sbarre – sentiva l’esigenza di incarnare. Dentro gli istituti di pena, negli anni a venire, Onida continuerà a prestare volontariamente attività di consulenza legale per i detenuti del carcere di Milano-Bollate, con una dedizione e un’empatia non comuni, figurarsi tra gli accademici. E da Presidente della neo-nata Scuola Superiore della Magistratura, volle con determinazione promuovere e realizzare corsi di aggiornamento interdisciplinari mirati al disegno costituzionale delle pene e della loro esecuzione. Non si era limitato a guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhio. Aveva visto e non aveva dimenticato.
3. Palazzo della Consulta ha fatto da quinta teatrale alle capacità interpretative dell’avvocato Onida. In nome e per conto delle Regioni, a difesa del disegno autonomistico costituzionale. Spesso a sostegno delle ragioni di comitati promotori, per l’ammissibilità di referendum. Ma anche avvocato di cause perse in partenza che riusciva, invece, a portare a successo: come quella per la pari durata tra leva militare e servizio civile (sent. n. 470/1989) che gli regalò la gratitudine di tutti gli obiettori di coscienza, Eletto poi nel 1996 dal Parlamento in seduta comune giudice della Corte costituzionale, nel 2004 ne assunse la carica di Presidente: così, per nove intensi anni, è stato la persona giusta al posto giusto. Da giudice relatore, ha firmato molte decisioni di grande spessore costituzionale ma è di una, apparentemente minore, che voglio parlare: la n. 526/2000. Perché riguarda, ancora una volta, la Costituzione dietro le sbarre.
E perché, a suo modo, esemplare di come Onida sapeva interpretarla per assicurarne principi e regole. Come spesso accade quando si tratta di ordinamento penitenziario, la quaestio nasceva da una vicenda degradante: la sanzione disciplinare irrogata a un detenuto a causa del suo rifiuto, opposto all’ordine della direzione del carcere, di effettuare, completamente nudo, le flessioni sulle gambe davanti agli agenti penitenziari per consentire un’accurata perquisizione personale. Il carattere lesivo per la dignità del detenuto di tale operazione faceva emergere, a monte, l’assenza di un giudice che potesse accertarne la legittimità dei presupposti e delle modalità, abbandonati dal silenzio legislativo ad una circolare ministeriale.
L’obbligo di documentare il perché, il come e il chi della perquisizione viene, invece, ricavato in sentenza direttamente dalla Costituzione, attraverso una sua intepretazione guidata da una bussola: “quanto più la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l’attenzione per evitare che questi si verifichino”. È un ago che, da giudice relatore, Onida orienta in modo da assicurare fin da subito – in attesa di un legislatore latitante che a lungo resterà tale – una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Che sono in galera perché puniti, non per essere puniti ulteriormente. Come, infatti, si legge nella sent. n. 349/1993 – che la penna di Onida non dimentica di citare – la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona, ma non la sua soppressione: chi si trova in prigione ne conserva sempre un residuo, tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Valerio Onida, in questo, ha sempre mostrato una sensibilità affilatissima. Ed ha agito e tentato di rendere giustizia costituzionale di conseguenza.
4. Il giudice Onida faceva parte del collegio che si trovò a dover misurare con il metro della Costituzione la pena fino alla morte, all’indomani della sua introduzione: l’ergastolo nella sua variante ostativa. In assenza dell’istituto del dissent (oggi, se posso dire, necessario più che mai), le decisioni della Consulta sono collegiali. Non so, dunque, come Valerio Onida votò in occasione della sent. n. 135/2003 che respinse i relativi dubbi di costituzionalità perché l’ostatività al beneficio della liberazione condizionale deriverebbe non da un automatismo legislativo illegittimo ma “dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo”. Una tesi che la stessa Consulta, oggi, riconosce zeppa di malintesi.
So, però, che cosa Valerio Onida ha fatto dopo, contro quella teologia della maledizione perenne (“fine pena mai”, “devi marcire in galera”, “gettare via la chiave”) che è l’opposto del senso costituzionale della pena. avvocato, davanti alla Corte EDU, ha autorevolmente patrocinato le ragioni dell’ergastolano ostativo Marcello Viola, contribuendo ad ottenere la sentenza del 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per una “pena perpetua non riducibile” che vìola la clausola convenzionale, inderogabile, del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Un “problema strutturale” del nostro ordinamento penitenziario che la CEDU ci impone di risolvere, riconoscendo la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per tutti gli ergastolani, previo accertamento giurisdizionale, caso per caso, delle condizioni previste dalla legge, note al reo già al momento della condanna.
Da opinionista influente, si è speso alla vigilia delle decisioni con le quali è toccato (e toccherà ancora) alla Corte costituzionale giudicare della legittimità del regime ostativo applicato agli ergastolani (sent. n. 253/2019, ord. n. 97/2021). E lo ha fatto contro un “doppio binario” penitenziario che considerava espressione di un illegittimo diritto penale del nemico: “ma la durata delle pene e il loro termine, in esito a un percorso di risocializzazione, non possono, in base ai principi costituzionali e di umanità, conformarsi” a una logica “di tipo “militare”“ perché “reati, pene e percorsi di recupero riguardano persone, non pedine di un esercito”.
Così scriveva – con tanto di corsivo testuale – nella sua prefazione al volume Contro gli ergastoli (Ediesse/Futura, 2021), che ho curato insieme a Stefano Anastasia e Franco Corleone. Piantata come un chiodo sul muro, inviterei a rileggerla nell’attesa che la Consulta riassuma nuovamente la quaestio sull’ergastolo ostativo, diciotto mesi dopo averlo già accertato “incompatibile con la Costituzione” ed a quasi tre anni dalla sentenza della Corte europea.
La giostra della vita, che decide di fermarsi quando e come vuole, ha voluto che quella prefazione sia l’ultimo testo pubblicato da Onida. Ne andiamo fieri e ne sentiamo tutta la responsabilità. Già prossimo al capolinea, volle caparbiamente partecipare – da remoto – alla presentazione del volume a Montecitorio nel dicembre scorso: nella voce e nei lineamenti del volto i segni sofferenti di una malattia impietosa, sconfitta però – in quell’occasione – dalla sua consueta lucidità di pensiero e da un’indomita determinazione nel difendere le ragioni della Costituzione. Valerio Onida ci ha lasciato da pochi giorni. Ma già ci manca.