Di fronte a una multicrisi fuori controllo. di Claudia Cosma, Benedetto Saraceno

È inedito per l’umanità doversi misurare con la contestualità di una pandemia respiratoria, una guerra con minaccia di escalation nucleare e l’incombere di cambiamenti climatici di natura antropica.

Spesso nella storia epidemie e guerre si intrecciano. Alcune volte i destini delle seconde sono intimamente legati all’imprevisto di una pestilenza. Si narra in proposito che per secoli l’arma difensiva più potente in Europa per resistere a un’aggressione fosse il tifo, malattia che puntualmente falcidiava le potenze assedianti impedendo la conquista di una stabile egemonia nel Vecchio Continente (1). È abbastanza inedito, tuttavia, per l’umanità doversi misurare con la contestualità di una pandemia respiratoria, una guerra con minaccia di escalation nucleare e l’incombere di cambiamenti climatici di natura antropica. Una trama sofferta che merita, anzitutto, un lessico appropriato oltre che strumenti adeguati per comprendere e affrontare le sfide che ne derivano in termini di salute pubblica.

È lungo questi binari che va interpretato un breve, ma densissimo editoriale del British Medical Journal (BMJ) (2), a firma del suo editor-in-chief Kamran Abbasi, che ripercorrendo una lunga serie di articoli pubblicati dalla rivista negli ultimi due anni punta un faro sulle crisi incontrollate dei giorni nostri ovvero quella climatica, quella pandemica e la più recente frutto dell’invasione militare mossa dalla Russia contro l’Ucraina. Se ne ricava così un contesto di plurime emergenze o, come definito dal BMJ, di multicrisi, che vede da una parte l’incapacità di farvi fronte simultaneamente dall’altra, come naturale conseguenza, lo spettro di un rimbalzo incessante e privo di soluzioni efficaci da una crisi all’altra. L’attenzione delle istituzioni e dei governi, del resto, si direbbe venire catturata con maggiore facilità dalla crisi cronologicamente più recente, facendo sfumare la focalizzazione sulle altre. Deriva da questo modo di procedere la tentazione di parlare di missione compiuta o di crisi sotto controllo anche quando non appare vero, aggrappandosi a un magic bullet da presentare come chiave di volta per porre fine all’emergenza.

Piuttosto che coltivare questa illusione, è l’esortazione degli articoli passati in rassegna da Abbasi, è preferibile investire su interventi più lungimiranti. E almeno per quanto di competenza nell’ambito strettamente sanitario questo significa impegnarsi a potenziare l’efficienza e l’equità dei sistemi di salute pubblica. Partendo dalla consapevolezza, come indicato in un articolo firmato da Partha Kar, del bisogno di soffermarsi sulle sfide reali da affrontare anziché eccedere nell’ottimismo di maniera. Tanto più che gli anni di pandemia hanno ampliato il fardello a carico del sistema sanitario in termini di salute mentale, carenze di organico e target non raggiunti nell’offerta di terapie salvavita come le oncologiche. D’altro canto per essere all’altezza delle questioni aperte dalle tre crisi menzionate da Abbasi bisogna fare i conti anche con le distorsioni con cui spesso vengono trattate. Diventa allora utile, anzitutto, declinarle secondo le tre dimensioni attorno a cui si manifestano: lo spazio, il tempo e l’azione.

La dimensione spaziale ha a che fare con la diversa percezione (e conseguentemente con le diverse risposte che mettiamo in atto) in base alla vicinanza o lontananza della crisi. Tipicamente questo è stato, ed è, il caso della guerra che, quando è lontana ci lascia più passivi se non addirittura indifferenti e quando è vicina per fattori geografici e culturali porta a mobilitarci prima di tutto psicologicamente, ancor prima che per vie politiche. Ad esempio i bombardamenti per mano russa contro gli ospedali hanno destato una comprensibile indignazione internazionale quando consumati in Ucraina, molto meno quando analoga tecnica di guerra shock-and-awe è stata adottata in Iraq o in Siria.

La dimensione temporale, vale a dire la prossimità o meno di una minaccia, ci porta a sua volta a mancare l’obiettivo di soluzioni condivise ed efficaci contro la crisi innescata dal surriscaldamento climatico: i giovani percepiscono di essere e sono inevitabilmente più esposti a un fenomeno che si materializzerà appieno nel giro di qualche decennio.

Tutto questo ci fa sentire impossibilitati a intervenire con azioni incisive (la terza dimensione) sia sul piano individuale che collettivo. In effetti spazio, tempo ed azione solcano ciascuna delle crisi epocali già richiamate: i Paesi più poveri sono in genere più vulnerabili anche alle conseguenze del cambiamento climatico, il superamento della fase acuta della pandemia da COVID-19 non porta a sgravare gli oneri a lungo termine della malattia e di per sé neppure a smaltire l’arretrato delle prestazioni sanitarie che si è accumulato in più di due anni, la prosecuzione di un conflitto in Ucraina oltre a minacciarne nell’immediato l’integrità territoriale del Paese rischia di minare anche l’approvvigionamento di grano di larga parte degli Stati africani. Problemi complessi e che si intrecciano in un groviglio di eventi destinati a produrre effetti nel tempo.

Ecco, pertanto, che il concetto stesso di multicrisi dovrebbe consigliare di uscire dalla logica della mera emergenza, la “tyranny of emergency” che Arjun Appadurai contrappone alla “politics of patience” (3).

Una emergenza, d’altronde, può condurre a una narrazione consolatoria che giustifica persino l’impossibilità di intervenire data la sua natura di evento totalmente inatteso, relativamente raro, ma soprattutto di durata tutto sommato definibile. Di contro la ricerca di un approccio vincente per una multicrisi incentiverebbe governi e sistemi sanitari a entrare in una logica di interventi sistemici e, quindi, stabili e di lungo periodo anziché agire dopo l’arrivo dell’imponderabile, rifugiandosi dietro un improbabile cigno nero. È un approccio che vale per le pandemia, ma anche per il cambiamento climatico e la guerra in corso sul fianco orientale dell’Europa. La cultura dell’emergenza, ampliando la riflessione di Abbasi, può portare in ciascuno di questi casi ad alterare le priorità da affrontare e anche gli interventi da implementare. Restando allo stretto ambito della salute, ci possiamo chiedere se il piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR), frutto del massiccio programma di finanziamenti e sussidi deciso dall’Unione europea post-pandemia NextGenerationEu, destinerà una quota di risorse adeguata a sostenere il sistema sanitario nazionale o se, viceversa, messa in ombra l’emergenza pandemica la spesa sanitaria tornerà ad essere sacrificata in nome di priorità “altre”, ma di richiamo più immediato agli occhi dell’opinione pubblica.

Insomma, l’approccio emergenziale andrebbe decostruito, iniziando a disvelare le ambiguità e le reticenze che racchiude. In preparazione all’eventualità delle prossime pandemie diventa, dunque, essenziale non militarsi in una logica di mera urgenza a provvedere a rimpolpare le scorte di mascherine, respiratori ma provvedere a una programmazione in funzione, anzitutto, della presenza sistemica del virus che già imperversa dalla fine del 2019. Azioni sistemiche appaiono imprescindibili per dare risposta, inoltre, alla crisi del climate change e alle tensioni internazionali prima che sfocino in aperti conflitti.

Due possibili esempi sono la diplomazia idrica (e forse anche una più ampia diplomazia alimentare considerati i recenti pericoli di interruzione delle catene di approvvigionamento del grano che vediamo a seguito della guerra in Ucraina) che presenta potenzialmente un alto impatto sia per stemperare le conseguenze del surriscaldamento del pianeta che per scongiurare nuovi conflitti e la diplomazia orientata al disarmo la cui storia di maggior successo risale alla firma negli anni ’80 da parte di Stati Uniti e Urss dei trattati per la demolizione di parte degli arsenali nucleari.

Resta dunque l’interrogativo su cosa fare, nel concreto. La multicrisi richiede un intervento coordinato degli organismi globali e internazionali (FMI, Banca mondiale, Unione europea) per attutire gli oneri economici e finanziari che derivano dalla pandemia, dal cambiamento climatico e dalla guerra, ma in primo luogo diventa essenziale sfuggire dal tentativo della politica di trovare scorciatoie e semplificare, raccontando con toni realistici, anzitutto nella lettera scientifica, quello che conosciamo con dati e informazioni accessibili.

Al tempo stesso una certa enfasi merita di cadere nella costruzione di leadership forti nell’ambito della public health. Il BMJ ci ricorda che queste sono l’esito di una combinazione di fondi, potere, gloria e altruismo. La pandemia, però, ci ha insegnato che non si può prescindere da un ulteriore ingrediente: la costruzione del consenso per soluzioni di lungo termine. Non una missione facile, considerati anche gli inciampi dell’ultimo biennio: basti pensare alle decine di milioni di pazienti non vaccinati in America e in Europa malgrado il ricorso a campagne di comunicazione, testimonial e interventi normativi ispirati al nudge, alla spinta gentile verso la vaccinazione, ma anche in Cina dove le misure draconiane non solo stanno subendo una battuta d’arresto contro la variante Omicron ma hanno finito pure per scoraggiare la vaccinazione in una quota alta di anziani.

Va segnalato, sempre per allontanarsi dalla ricerca di soluzioni facili, che il coordinamento globale non è onnipotente: pensiamo a quanto accaduto nella produzione e nella distribuzione dei vaccini fra polemiche sui brevetti e diffidenza di alcune popolazioni nei Paesi in via di sviluppo, oppure passando al cambiamento climatico ai risultati in chiaroscuro della conferenza di Glasgow che sulla fuoriuscita dai combustibili fossili la dichiarazione finale da un obiettivo relativamente ambizioso di “phase out” è stata costretta a ripiegare su una opzione più modesta di “phase down”.

In aggiunta, va riconosciuto che è ingannevole ritenere che siano soltanto gli interventi globali quelli che avranno un impatto locale sulle singole comunità. In parte tale impatto ci sarà, certamente. Ma è il “local” che andrà ripensato, costruito, radicalmente innovato e potenziato, perché se è vero che la dimensione globale è potente, questa non può prescindere da quella locale poiché è reale ovvero dove letteralmente le cose accadono (4).

 

Claudia Cosma, Scuola di Specializzazione in Igiene e medicina preventiva, Università di Firenze

Benedetto Saraceno, Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health

 

 

Bibliografia

  1. Niall Ferguson. Doom – The politics of catastrophe, 2021
  2. Abbasi K. Climate, pandemic, and war: an uncontrolled multicrisis of existential proportions. BMJ. 376:0689.http//dx.doi.org/10.1136/bmj.0689, 2022
  3. Appadurai A. Deep Democracy: Urban Governmentality and the Horizon of Politics. Public Culture 14 (1):21-47, 2002
  4. Saraceno B: Lezioni per il dopo: Salute Comunità Democrazia. In: Lezioni per il dopo. Comunitas, Supplemento a Vita, Maggio 2020.

fonte: saluteinternazionale.info

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