Abitare da sole è diverso da essere sole. O almeno dovrebbe, se solo le città fossero progettate sulla base delle reti amicali e di vicinanza. Una riflessione su come per ripensare il benessere c’è bisogno di partire dall’anzianità.
Nel giro degli ultimi 30 anni l’Italia ha vissuto una vera e propria rivoluzione demografica che ha toccato tutti i momenti cardine della vita e ha rimodellato il volto della società e delle famiglie. Si tratta dello straordinario processo di invecchiamento della popolazione. Invecchiamento determinato sia dall’alto – allungamento delle aspettative di vita alla nascita dovuto a diversi fattori tra cui: aumento del livello di reddito, qualità della sanità e prevenzione – che dal basso – determinato dal calo della natalità, provocato da trasformazioni socio economiche e culturali, quali la scolarizzazione e l’occupazione femminile.
Ad esempio, nell’arco di 30 anni, le persone con più di ottant’anni nel nostro paese sono più che triplicati. Erano il 2% nel 1980; oggi rappresentano più del 6%. E a Milano, città che i dati indicano particolarmente “vecchia”, gli over 75 sono quasi il 10%.
Quello dell’invecchiamento è un fenomeno socialmente significativo: gli anziani, infatti, rappresentano la memoria e l’esperienza del passato; e spesso suppliscono alla carenza dei servizi nella cura dei nipoti. Ma la rivoluzione demografica e la caduta del tasso di natalità sono fattori centrali anche di altre importanti conseguenze di tipo sociale. Cambiano la famiglia e le reti sociali. Le famiglie si restringono a piccoli nuclei, vi sono meno figli e figlie, fratelli e sorelle, ma anche sempre meno nipoti. Se un tempo le reti di relazione e di socializzazione delle persone anziane (costituite da reti di vicinato o di prossimità, oltre che da reti parentali) comprendevano circa 30 nodi, oggi tali reti sono ridottissime e spesso coincidono con lo stesso nucleo familiare.
Dunque uno dei fattori di fragilità per le persone anziane è determinato sicuramente dall’erosione della solidarietà parentale intergenerazionale, particolarmente evidente nelle grandi conurbazioni urbane, a partire da Milano. Fragilità che significa spesso isolamento e solitudine. Nubili, separati e separate, vedovi e vedove, magari con la sola pensione sociale, rappresentano un quadro della condizione anziana davvero critica.
E la criticità aumenta se si considera il fenomeno di femminilizzazione dell’invecchiamento. Infatti, a causa della differenza tra i tassi di sopravvivenza a Milano, per esempio, è donna circa il 60% della popolazione tra 75 e 85 anni; percentuale che tocca l’80% tra gli over 90. Insomma le donne, vivendo più a lungo degli uomini, rischiano in misura maggiore di rimanere sole, così come di incorrere in problemi di disabilità e, per di più, di trovarsi in condizioni di disagio economico.
Il quadro fin qui delineato ci torna alla mente soprattutto al cospetto dei lunghi lockdown imposti dalla pandemia negli ultimi due anni. Donne spesso sole, con la borsetta su un braccio e un sacchetto della spesa nell’altro; uomini soli, seppure meno di frequente, con lo sguardo attento ai passi per non cadere; ma anche anziani in coppia, vicini l’uno all’altro, appoggio reciproco in questa faticosa ma necessaria uscita da casa. Affaticati dalla coda, in piedi, magari sotto il sole davanti al supermercato di zona, o al negozio sotto casa. Immagini che s’impongono con violenza ai nostri occhi, mostrando tutta la fatica del vivere che esprimono questi corpi e questi sguardi.
Eppure… se per un attimo accantoniamo l’aspetto più triste e desolante di queste immagini, una riflessione di fondo si fa strada. Soprattutto, se riusciamo a inquadrare la condizione delle persone anziane con la realtà più allargata che ha riguardato molteplici situazioni umane: donne, anche giovani, con bambini piccoli, famiglie chiuse in spazi asfittici, costrette a una vicinanza non scelta, magari senza più lavoro e, quindi, con un futuro doppiamente reso incerto dalla paura del virus. Ma anche donne e uomini soli, abituati tuttavia a una socializzazione spesso indotta dal lavoro e dalle relazioni sociali.
Insomma, un quadro fatto di tante micro realtà, diverse tra loro, ma accomunate da un aspetto: l’improvviso cambiamento nella organizzazione della vita imposto dal lockdown; l’improvvisa solitudine con cui confrontare le lunghe giornate da trascorrere in una obbligata clausura.
E allora, in questo quadro si fanno strada altre immagini, altri pensieri. Certo, anche la popolazione anziana fa parte di queste fotografie: paura di non riuscire a fare la spesa, paura di non poter andare in farmacia; paure quotidiane, reali, potenti, ma abituali… è questa la grande differenza. Intendo dire che anziani e anziane sono abituati alla solitudine e all’isolamento, sono abituati a cavarsela con poco, a risparmiare, a cedere pochissimo al consumismo. Inoltre, è a questa parte di popolazione che le amministrazioni e il volontariato – anche nel lockdown – hanno prestato particolare attenzione. Aiutando concretamente quando ne aveva bisogno con pacchi di alimenti e delivery di farmaci, ma anche con l’accompagnamento di persona per visite mediche, esami, e altro.
Si può dunque affermare che in molti casi la giornata tipo durante i lockdown non sia stata condotta in modo troppo differente dalle abitudini quotidiane della vita di tutti i giorni. Ma ci sono due aspetti che vanno messi in luce, l’uno in qualche modo connesso all’altro. Il primo, già emerso in alcune ricerche precedenti la pandemia, è la differenza tra uomini e donne nell’affrontare l’anzianità e le difficoltà di tutti i giorni, materiali e non.
In una prospettiva di genere, emerge infatti una maggiore autonomia da parte delle donne anziane anche quando rimangono da sole, una maggiore capacità di organizzare risposte ai propri bisogni, una sorta di “saper fare al femminile” che le aiuta ad affrontare le difficoltà quotidiane e a vivere meglio anche nei momenti in cui ci sono meno energie. Le donne anziane sono in grado, ad esempio, di gestire la loro solitudine, sono più capaci, più intraprendenti, più abili nell’affrontare differenti difficoltà. Qualità e competenze che hanno accumulato nel tempo, grazie ai percorsi di vita e alle esperienze quotidiane vissute ogni giorno tra carichi familiari e impegni lavorativi.
In altre parole, vivere da soli, condizione che nel nostro paese riguarda il 40% degli over 80, non corrisponde necessariamente a uno stato di isolamento sociale e dunque di effettivo disagio. Per esempio, da una recente indagine sulle persone sole a Milano ai tempi del Covid, presentata da Graziella Civenti il 16 aprile 2021 alla Casa della Cultura di Milano, emergono alcuni caratteri alquanto inaspettati.
Innanzitutto, le relazioni sociali: certamente si ribadisce l’importanza dei rapporti parentali, così come il volontariato e le relazioni di vicinato. Ma sono soprattutto le reti amicali quelle a cui le donne si sono rivolte, e attraverso le quali hanno risposto positivamente quando veniva loro rivolta una richiesta d’aiuto. Inoltre proprio le donne sembrano avere sofferto meno di altri la scarsità economica.
Il periodo del lockdown ha messo in luce poi alcuni comportamenti relativamente al rapporto con i servizi sul territorio. La medicina di base ha confermato la propria inadeguatezza, inoltre le sue risorse sono poco conosciute e di fatto vengono sostituite sul piano relazionale da parrocchie e badanti. In definitiva, sono soprattutto le reti di prossimità che vengono cercate, al contrario di quanto avveniva in passato, quando erano le reti familiari a fungere da ammortizzatori sociali.
Da un punto di vista più generale, risulta chiaramente come il modello organizzativo dei servizi non sia in grado di rispondere alla crescente moltiplicazione e diversificazione dei bisogni. Questo sembra verificarsi soprattutto nei quartieri più fatiscenti e problematici, dove gli anziani sono in qualche modo intrappolati nelle case case, spesso in condomini senza ascensore. È dunque rispetto a questo tipo di popolazione che la politica delle città deve porsi l’obiettivo di riattivare le relazioni di vicinato, promuovere la domiciliarità delle risposte, contrastare l’emarginazione e la segregazione domestica. Insomma, ciò che si deve fare è ripensare le città e i quartieri dal punto di vista urbanistico, della mobilità e dei servizi in una logica di vicinanza che gli urbanisti chiamano “entro i 15 minuti”.
Come molti studi hanno documentato, il benessere delle persone anziane è multidimensionale e implica più fattori: quello psicofisico, quello socioeconomico, quello relazionale, quello partecipativo. In altri termini, il benessere tende a configurarsi come insieme di esigenze, di elementi e relazioni sempre più socialmente e sempre meno sistemicamente integrabili. Perdono, infatti, di importanza i fattori di benessere che si qualificano per essere controllabili, accumulabili e distribuibili sistemicamente. Mentre acquistano rilievo, nei processi generatori di benessere, le diverse e articolate forme di socialità sia informale che di tipo associativo.
I diversi volti che l’attivazione in età matura assume portano infatti a riconcettualizzare la vecchiaia con categorie diverse da quelle solitamente utilizzate tipicamente connesse al bisogno, alla fragilità, al crescente deficit di capacità. E aiutano a superare gli stereotipi che ancora oggi permeano il mercato del lavoro e la società in generale, continuando a essere fonte di discriminazioni, a influenzare la divisione sociale del lavoro e l’accesso alle risorse. In particolare, l’occupazione retribuita – per quanto assai importante – è solo uno dei modi in cui si esprime l’attivazione. Riconoscerlo significa portare alla luce la varietà dei contributi che la popolazione anziana può dare alle funzioni di riproduzione del sistema sociale, senza escludere chi nel mercato del lavoro non è più inserito (o non lo è mai stato), e sollecita a immaginare forme di valorizzazione di tali attività centrali per il benessere di tutti.
Quanto detto ci porta a mettere a confronto la prospettiva cosiddetta ‘edonica’ con la prospettiva ‘eudaimonica’. La prima, basata sul concetto di benessere che ha al centro emozioni positive, piacere, soddisfazione o comunque non-emozioni negative. L’altra, che mette al centro lo sviluppo delle competenze e una visione per obiettivi che può prevedere anche percorsi di autorealizzazione e autodeterminazione.
In sostanza, il benessere oggi non è solo un benessere legato al sentimento e agli affetti, non è essere felici, ma è un benessere che richiama una capacità di riadattamento e di riposizionamento rispetto a una serie di obiettivi. Molti anziani, e soprattutto anziane, sono riuscite ad affrontare con sufficiente serenità lockdown e distanziamento sociale, senza vivere una drammatica problematicità economica al contrario di quanto avvenuto per una parte altra di popolazione adulta.
Vivere e abitare da soli è diverso dall’essere soli, se si ha la possibilità di essere inseriti in una qualche rete amicale.
fonte: inGenere (titolo originale: “Il benessere passa per l’invecchiamento”)
Chi è l’Autrice: Francesca Zajczyk