La temuta strage, qui, non è mai avvenuta. Quando si parla di Covid in Africa, è fondamentalmente questo il messaggio che passa. E mentre da noi i bollettini giornalieri scandivano inflessibili il computo delle morti, diverse testate del nostro paese ci mostravano, spesso con toni tra il sorpreso e il sensazionalistico, i numeri di un’Africa scampata alla pandemia. Basta però andare solo un po’ più in profondità rispetto ai pochi dati governativi disponibili, per rivelare una realtà molto diversa, e decisamente più tetra.
Per comprendere il reale impatto che il Covid ha avuto in Africa è prima di tutto necessario chiederci se i dati che disponiamo sulla pandemia siano stati catturati in giusta quantità e qualità. In Africa, la risposta è no. Registrare correttamente gli eventi sanitari, come ad esempio la diffusione di una pandemia e la sua mortalità, significa disporre di sistemi di informazione e vigilanza sanitaria capillari e sofisticati, e in particolare di un efficiente registro di morte, sui cui dati si struttura ogni analisi epidemiologica. L’Italia, per esempio, dispone di un sistema di certificazione di morte molto avanzato e, diversamente da quanto si sente talvolta dire, i nostri dati sono molto coerenti e senza evidenti sopra o sottostime. Al contrario, la maggior parte dei paesi africani è molto indietro da questo punto di vista.
Non ci rimane quindi che guardare al monitoraggio delle morti, di tutte le morti, indipendentemente dalla causa riportata sui certificati: in questo caso lo scenario muta considerevolmente. Guardiamo all’esempio del Sudafrica. Qui, tra il gennaio 2020 e il gennaio 2022, il governo sudafricano calcolava a circa 90.000 i decessi che riportano la dicitura “Covid” come causa ufficiale di morte. Tuttavia, i dati diffusi per lo stesso periodo dall’Istituto Superiore di Sanità sudafricano (MRC) mostrano quasi 300.000 morti inattese, due terzi in più. Quindi la strage c’è, ma non si vede.
Affinché questa strage silenziosa sia visibile, basta guardare il grafico elaborato dal MRC che mostra in rosso le morti attese su base statistica, mentre in nero la curva delle morti inattese che corrispondo ai picchi di Covid.
Queste morti inattese non sono necessariamente tutte dovute alla malattia Covid, ma potrebbero anche risultare dalle conseguenze indirette della pandemia come, ad esempio, i problemi legati ai lockdown o allo stress del sistema sanitario. Tuttavia, è anche importante ricordare come in concomitanza dei lockdown si sia registrata una forte diminuzione delle morti dovute a cause esterne (incidenti stradali o sul lavoro, morti legate all’abuso di alcol, etc.) è quindi probabile che moltissime di questi decessi siano comunque strettamente relazionate al Covid.
Una cosa però è chiara: in Sudafrica il Covid ha avuto un impatto disastroso in termini di perdita di vite umane e questa situazione è paragonabile, se non peggiore, nella maggior parte dei paesi della regione. È dunque profondamente fuorviante parlare di un modello africano. Di più, è pericoloso, perché non fa altro che causare danni in termini di minore interesse da parte dei donatori occidentali ad intervenire con aiuti appropriati.
Anche la minore mortalità causata dalla variante Omicron, identificata proprio in Sudafrica lo scorso novembre, può essere ricondotta, oltre che ad una probabile minore gravità della variante, anche al fatto che qui l’immunità era già altissima tra la popolazione. Studi pubblicati a Dicembre 2021, e quindi prima che emergesse Omicron, avevano infatti registrato come tra la popolazione sudafricana over 50 si arrivasse già ad un 80% di presenza di anticorpi contro il Covid dovuta in larga parte ad esposizione già avvenuta. Quando qui è comparsa Omicron, la popolazione era già in larga parte immune.
E non certo grazie ai vaccini (visto che meno del 30% dei sudafricani è stato vaccinato con due dosi) ma perché questo paese era già stato colpito duramente, pagando un prezzo altissimo in termini di mortalità, come riportano i dati del MRC.
In quanto ai vaccini, il vero problema non riguarda la mancanza di dosi, che ci sono, come appare anche evidente dai dati raccolti dall’Unione africana.
Non basta mandare vaccini (magari a poche settimane dalla scadenza) e non accertarsi che ci siano celle frigorifere per mantenerli, siringhe, dispositivi di sicurezza per il personale sanitario, così come non basta mandare le dosi e poi non dare tanti, tanti fondi per fare campagne capillari. Da medico impegnato da anni in campagne di vaccinazione in Africa, so che c’è bisogno di investimenti enormi da parte della comunità internazionale per movimentare il ministero, le organizzazioni della società civile, i media e per raggiungere i villaggi e sensibilizzare la gente. Questo impegno, al momento, sembra essere largamente insufficiente.
Bisogna poi sottolineare come oltre alla strage di vite umane, i ripetuti e duri lockdown causati dal
Covid hanno danneggiato moltissimo le economie locali, anche perché in Africa non ci sono, o sono pochissimi, i sistemi sociali di sostegno e aiuti economici. Qui non ci sono ristori e il continente non può contare, a differenza dell’Europa, su un piano di rilancio come il Recovery Fund.
Per questo è essenziale che la comunità internazionale aiuti di più e soprattutto meglio il continente africano, partendo innanzitutto dal supporto alla creazione di sistemi di informazione e registro dati di mortalità, di sorveglianza e ricerca mutazioni. In assenza di questi, i paesi africani non riusciranno a monitorare efficacemente la situazione ed avere dati chiari sui quali basare risposte e campagne di prevenzione adeguate. Particolare attenzione deve poi essere riservata all’individuazione delle varianti, che vanno monitorate per agire in fretta con misure adeguate, ma non certo per isolare i paesi appena se ne scopre una nuova, come è successo con Omicron.
A due anni dall’inizio della pandemia, è il momento di andare oltre gli interventi di emergenza e cominciare a pensare alla prevenzione futura. La dura lezione del Covid ci deve insegnare a ragionare in termini di strategie sanitarie il più possibile caratterizzate da un approccio One Health, che guardino cioè non solo alla dimensione umana ma anche a quella animale e ambientale. Si calcola infatti che circa il 70% delle malattie infettive umane che colpiscono l’Africa siano in effetti zoonosi originate da un cosiddetto “spillover” dal regno animale all’uomo.
Piuttosto che ipotizzare fantasiosi scenari che dipingono l’Africa come incolume alle pandemie, è dunque importante investire fin da subito a sostegno della cooperazione tra medici umani e medici veterinari in campi come la ricerca, la sorveglianza attiva e in campagne di prevenzione e formazione. Gli interventi a sostegno della sorveglianza sulle zoonosi, per esempio, non sarebbero neanche troppo complicati da attuare perché i laboratori di veterinaria spesso esistono già e potrebbero facilmente essere supportati a effettuare il sequenziamento ed il monitoraggio delle zoonosi.
Solo attraverso questi interventi, i paesi africani disporranno degli strumenti necessari per agire in tempo ed eventualmente intervenire prima che le zoonosi si espandano con gli effetti disastrosi che viviamo tutti in questi giorni. In Africa come nel resto del mondo.
Dr. Alessandro Campione
Medico esperto in Sanità Pubblica
Direttore dei Programmi di Jembi – organizzazione non profit – Cape Town, Sudafrica, https://www.jembi.org/
fonte: QS