«Ho impiegato molto tempo per passare da un’astratta nozione di deontologia al concreto farmi carico delle reali necessità di chi soffre». È stata «una metamorfosi lunga e non semplice» questa che Ernesto Buondonno fa intravedere con le tante «piccole storie» che ripercorrono cinquant’anni di lavoro da psichiatra, prima nei manicomi del dopoguerra poi in mezzo ai cambiamenti e alle lotte per la riforma, infine nei nuovi servizi che Buondonno ha diretto fino alla metà degli anni ’90.
All’inizio, nei primi passaggi del volume Frammenti. Piccole storie di psichiatria (Edizioni La Meridiana, pp. 328, euro 22), vediamo Buondonno, giovane psichiatra in formazione amante dello studio e «impegnato in imprese politiche per cambiare la società e il mondo», mentre entra in un manicomio per la prima volta. L’occasione per «vederlo da di dentro» è una «esercitazione, che avrebbe dovuto arricchire di chissà quali osservazioni cliniche il nostro sapere» di studenti. Fu invece l’ingresso inatteso in «un luogo strano, sconosciuto, impensabile».
A SETTANT’ANNI di distanza, Buondonno ricorda le sensazioni di quel giorno: «mi sentivo stordito e stralunato», «avvertivo un indescrivibile malessere», «un vissuto di improvviso e sconvolgente straniamento». E rileva: «rimasi sconcertato ma incomprensibilmente impigliato e irretito». Di quel luogo, il manicomio, che non è uno solo perché Buondonno ha lavorato in più di un manicomio, in clinica universitaria e in cliniche private, il libro ci consegna molte immagini, scene, storie, sempre brevi, una o due pagine al massimo, semplici, dirette, a volte tremende.
Le immagini sono quelle che il pubblico dei non addetti ha poi imparato a conoscere con Morire di classe, il libro curato da Franco e Franca Basaglia con le foto che Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin avevano scattato in alcuni manicomi italiani: cameroni, grate, camicie di forza, letti di ferro, cortili spogli, uomini e donne legati, o rannicchiati a terra, corpi seminudi o dentro camicioni informi. Nelle scene, vediamo tutto un florilegio delle «normali assurdità» e «regole idiote» tipiche dell’istituzione totale: «gli specchi proibiti», «le cartelle cliniche sottochiave», «la coercizione preventiva», l’incredibile «sgabuzzino delle merende» in cui si custodiva e si degradava il cibo lasciato dai familiari dei ricoverati, i giornali prima vietati poi ritagliati dalla censura del direttore «poiché le notizie di cronaca avrebbero potuto turbare i ricoverati».
A volte l’orrore e l’assurdo del manicomio appaiono interrotti da persone o anche solo da gesti: il tenente dei carabinieri che dirige una «caserma accogliente», un «magistrato lungimirante» che evita la condanna all’internamento, infermiere, infermieri e ricoverati che sono rimasti capaci di generosità, intelligenza, affetto. Tutte queste storie senza data né luogo all’inizio lasciano perplesso il lettore, e curioso di sapere dove e quando sono accadute, ma ben presto si capisce che non è questo il punto. Buondonno non vuole raccontare storie dei manicomi ma segue una particolare storia, quella della sua personale metamorfosi che ancora lo interroga. È questo l’aspetto originale del libro, la sua anima, ciò che lo rende diverso dalla memorialistica sui manicomi e sulla psichiatria.
È A TRATTI STRUGGENTE lo sguardo con cui quest’uomo anziano rivede sé stesso da giovane e non si capacita della sua cecità. «Quelle entità non mi sembravano neanche persone ma strane forme biologiche, come quelle in formalina nell’istituto di anatomia patologica» ma, «ora che sto scrivendo, penso che non mi venne spontaneo guardare negli occhi di quelle forme per passare dalle maschere grottesche all’incontro di un qualche barlume di umanità nascosta».
Con una sorta di malinconica distanza, Buondonno ritorna continuamente a quel sé stesso che guardava senza vedere, che studiava senza capire: «scrivevo con zelo cartelle cliniche e approfondite annotazioni circa possibili diagnosi differenziali» e così, mentre «ero intento allo studio dei sintomi mi sfuggiva l’essenziale cognizione della sofferenza quotidiana di quelle persone». Certi ricordi gli «pesano ancora fortemente nell’animo», come la storia del vecchio contadino che vuole visitare, insieme con il nipote di cinque o sei anni, il figlio ricoverato. Sono arrivati da lontano ma fuori dall’orario di visita e perciò vengono costretti ad andar via, e il bambino non capisce e chiede perché non gli fanno vedere il suo papà. «Avrei dovuto disobbedire a regole idiote e non esserne succube e complice, ma non lo feci»: «lo sguardo di quel bambino mi resta per sempre».
«IN SEGUITO le cose cambiarono e lottammo con determinazione e passione per abolire i manicomi»: sono gli anni di Psichiatria Democratica, Buondonno vi si impegna dall’inizio, nel manicomio di Fermo e poi in quello di Pistoia; e con «i nuovi compagni» – gli «infermieri ribelli», i giovani medici appena assunti dalla nuova amministrazione provinciale – inizia una vita di lavoro diversa. I cambiamenti sono favoriti dagli scambi con i compagni del movimento che in Italia sta crescendo, Buondonno lo sottolinea ripetutamente ricordando le persone, le riunioni, i convegni, e in particolare le visite di Franco Basaglia a Fermo.
Tuttavia non sono le storie degli «anni migliori» quelle su cui Buondonno indugia di più. La memoria va continuamente a quello che rimane il suo rovello: la lunga cecità verso la violenza e il sopruso da parte di lui medico studioso e di sinistra, la potenza negativa del manicomio, che nella sua disumana assurdità tuttavia irretisce, soggioga, devia. Quale meccanismo agisce? «L’induzione dell’ambiente e dei pregiudizi dominanti e l’ambigua banalità del male sono alibi sufficienti?». E se non lo sono, cos’altro c’è da capire, da spiegare per evitare che si riproduca quel «vero e proprio contagio di violenza» che Buondonno si rammarica di aver subito e a lungo non contrastato? È illuminante, e ci porta anche a ragionare sulla psichiatria e la medicina di oggi, il racconto del giovane Buondonno che in un manicomio assiste «all’intervento di leucotomia trans-orbitaria su un internato schizofrenico» (..). «Stavo proprio di fianco al lettino operatorio e osservavo con attenzione la manualità tecnica del chirurgo. C’era chi affermava che si trattava di un vero e proprio crimine, che non aveva efficacia terapeutica ma solo gravi effetti dannosi (…). Avrei dovuto obiettare, andarmene (…). Non ci pensai proprio. La mia attenzione era presa solo dall’aspetto tecnico dell’intervento».
È QUI LA RADICE della cecità e della violenza: il medico può non riconoscere l’umanità che ha in comune con il paziente, può non vedere la persona oltre il sintomo, la malattia, l’organo quando e in quanto sia totalmente identificato con la tecnica, con il sistema di tecniche di trattamento che lo rendono medico moderno, scienziato. Le determinazioni dell’istituzione (non necessariamente totale), il peso dei pregiudizi, le prassi consolidate, le dinamiche del gruppo, tutto questo viene dopo, e si radica su un terreno già preparato dal fatto che la cura è considerata un insieme di tecniche di trattamento «oggettive» e «scientificamente» fondate, che il medico deve apprendere e applicare per essere tale. «È possibile che anche ora, in luoghi non più chiamati manicomi, giovani medici e altri operatori non si pongano i problemi che io allora non mi posi e che si tolleri l’intollerabile?».
Le memorie di Buondonno ci consegnano questa domanda, a cui sappiamo di dover rispondere che sì, che anche oggi accade che si tolleri l’intollerabile nei sistemi di salute mentale e nei servizi sanitari, come peraltro in molti altri ambiti delle nostre società democratiche. Il fatto che questo continui ad accadere dopo che «abbiamo dimostrato» – come diceva Franco Basaglia – «che si può assistere la persona folle in un altro modo, e che dunque ora si sappia cosa si può fare», aggiunge forza alla domanda di Buondonno, e la rende ancora più necessaria e attuale.
Alcune brevi note bibliografiche
Il testo che qui anticipiamo è la Prefazione alla nuova edizione del libro di Ernesto Buondonno, «Frammenti. Piccole storie di psichiatria» (edizioni la meridiana, pp. 328, euro 22,00). Il testo, uscito nel 2015 per «Fogli d’informazione» (Rivista di Psichiatria Democratica), esce nella nuova veste, a tre anni dalla scomparsa dell’autore.
Ernesto Buondonno è stato psichiatra e libero docente (Nocera Inferiore 1925 – Fermo 2019). Ha lavorato a Napoli, Lecce, Palermo, Pistoia e Fermo. È stato militante di Psichiatria Democratica e del Pci.
fonte: il Manifesto