I guasti della tecnocrazia nel caso esemplare delle strutture territoriali: 1.350, una ogni 40 mila abitanti. Con una stima di decine di migliaia di addetti. Chi decide? Spendere, bene, e velocemente i fondi europei. Che occorra saperli bene utilizzare è un saggio proposito, ma l’imperativo della velocità non sembra essere sempre un buon viatico, né implica di per sé che si facciano le cose nel modo più efficace.
Nella “raccomandazione” che la Commissione europea ha rivolto al governo italiano per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) si legge: “Per garantire la responsabilizzazione dei soggetti interessati, è fondamentale coinvolgere tutte le autorità locali e tutti i portatori di interesse, tra cui le parti sociali, durante l’intera esecuzione degli investimenti e delle riforme inclusi nel piano”. Insomma, ciò che si richiedeva, o che si suggeriva, era una qualche forma di partecipazione, che andasse oltre la mera contrattazione tra gli interessi in gioco. Quanto di questa raccomandazione è stato in effetti realizzato?
In generale sta prevalendo una visione meramente tecnocratica del Piano; certamente, in molti casi, vi è stata una concertazione con le regioni e gli enti locali; e non c’è dubbio, poi, che, trai molteplici progetti che sono in fase di avvio, non tutti presentano profili problematici o sollevano potenziali conflitti. E tuttavia, specie in alcun e materie, l’assenza di una ampia e diffusa partecipazione può rivelarsi un grave ostacolo, può pesare negativamente sull’efficacia stessa delle politiche: senza l’attiva condivisione dei “destinatari” di una politica pubblica sono le finalità stesse di tale politica ad essere spesso fortemente a rischio.
Uno dei casi esemplari in questo senso è la sanità pubblica. È ormai noto come la pandemia abbia messo in luce la debolezza della sanità territoriale, riportando l’attenzione sull’importanza della prossimità e di una medicina pronta a rispondere alle esigenze dei cittadini. Dunque, sono tornate al centro del dibattito le Case di comunità: un luogo prossimale di offerta di cure primarie e di supporti sociali e assistenziali, ma anche spazio di relazione e attenzione a tutte le dimensioni di vita della persona e della comunità.
E dunque, se c’è una riforma che ha bisogno di partecipazione è proprio quella delle Case di comunità. In assenza di una reale discussione pubblica sui bisogni di una collettività, e senza una progettazione diffusa e condivisa, non rischiano solo di restare sulla carta: nell’impossibilità di attuare l’intervento nei tempi previsti è possibile che i finanziamenti siano dirottati altrove, magari su lavori già avviati negli ospedali e per i quali la disponibilità economica, per varianti indispensabili e aumenti dei costi delle materie prime, risulta insufficiente.
La realizzazione delle Case di comunità non è un’operazione semplice, specie nelle regioni in cui, in questi decenni, non vi è stata alcuna iniziativa. In tutto, ne sono previste ben 1.350: una ogni 40.000 abitanti, un obiettivo di ampia portata. Occorre che Regioni e Comuni abbiano già individuato gli edifici disponibili, le loro caratteristiche (sismiche, antincendio, destinazione d’uso…), o che progettino i siti idonei per nuove realizzazioni verificandone la destinazione urbanistica, la viabilità, la possibilità di realizzare parcheggi, i percorsi dei mezzi pubblici, i percorsi disabili…
E poi si tratta di progettare il lavoro e le attività di queste “case”. Diversi sono gli aspetti da affrontare. In primo luogo la forma: per inserire servizi sociali e per far partecipare la comunità bisogna concepire una Casa di comunità che abbia luoghi idonei per accogliere i servizi sociali del comune, realizzare sale riunioni, locali per associazioni di volontariato, ecc… Poi c’è il contenuto: è necessario il coinvolgimento, fin da ora, dei Comuni per pianificare l’inserimento dei servizi sociali e per costituire team multi-professionali.
La Casa di comunità è — deve essere — la porta di ingresso al Servizio sanitario nazionale, integrato, come prevede la legge istitutiva, coni servizi sociali; ragione fondamentale per cui la gestione di tale struttura deve essere pubblica.
E un servizio pubblico si basa su una fondamentale risorsa: i propri professionisti. Quelli necessari per le Case, in cui dovranno svolgere parte sostanziale della loro attività i medici di medicina generale, sono numerosi; una stima individua 1350 coordinatori infermieristici, 16.200 infermieri,10.800 personale di supporto. Non si può certo pensare di sottrarli alle strutture ospedaliere dove c’è già carenza di organici.
Stupisce che al terzo anno di pandemia non si sia ancora messo mano in modo adeguato a questa fondamentale questione: rendere attrattive le professioni sanitarie! Vi è un problema retributivo, peri medici e in particolare per gli infermieri (si stima che in dieci anni vi sia stata una perdita salariale reale di circa 3.000 euro) ed è indispensabile provvedere all’assunzione di tali professionisti nella fase finale della loro formazione.
È evidente che, specie su questioni di tale natura, non può esistere un decisore “onnisciente”, un luogo di concentrazione di sapere e potere, in grado di padroneggiare e controllare tutte le variabili che incidono sul successo di una politica. L’attivazione diffusa di conoscenze, esperienze e competenze presenti nella società, è un prerequisito di efficacia. La partecipazione non è un “lusso” che non ci possiamo permettere, di questi tempi, sotto la spinta delle emergenze. È, nello stesso tempo, una necessità vitale ai finidell’efficacia delle politiche e una condizione basilare di democrazia.