Referendum cannabis. La frittata di Amato. di Leonardo Fiorentini

Non ha avuta vita lunga la pretesa narrazione di una Corte “che non cerca il pelo nell’uovo” da parte del Dottor Sottile. Con l’affossamento anche del Referendum Cannabis Legale cadono gli unici due referendum popolari e sentiti, che hanno raccolto quasi 2 milioni di firme in pochi mesi. Insieme a questi cade nel vuoto l’invito del Presidente della Corte Costituzionale di “cercare di vedere se ci sono ragionevoli argomenti per dichiarare ammissibili referendum che pure hanno qualche difetto”. Col senno di poi, un impacciato tentativo di nascondere decisioni già prese ancor prima di ascoltare le ragioni dei promotori.

È stato ritenuto inammissibile anche il quesito che mirava a depotenziare gli effetti penali del Testo Unico sulle droghe, depenalizzare la coltivazione ad uso personale e avviare il paese verso moderne politiche di regolamentazione legale della cannabis, più efficaci a garantire un reale controllo della sostanza ed a prevenire usi pericolosi o problematici. Il testo, che pure è stato costruito in rispettoso dialogo con le precedenti pronunce della Corte e mantenuto nell’alveo degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali, è stato bocciato senza prendere in considerazione le memorie difensive che risolvevano ogni possibile problema, anche della normativa di risulta. La Corte ha accettato i dogmi della Chiesa della Proibizione, come la chiamava Peter Cohen, senza alcun tentativo di ragionamento autonomo, nonostante siano le stesse Nazioni Unite a denunciare come alcuni stati abbiamo eccessivamente criminalizzato le sostanze illegali. A partire dall’Italia che in carcere ha il 35% di detenuti per droghe, il doppio della media europea e più di USA e Russia. La media mondiale è il 21%.

Di più: in conferenza stampa il Presidente Amato nello spiegare le motivazioni che hanno portato alla bocciatura, ha curiosamente omesso di dire che le condotte che il comma 1 dell’art. 73 del DPR 309/90 riferisce alle tabelle I e III (droghe pesanti) sono le stesse richiamate dal comma 4 dello stesso articolo, che definisce le pene per tabella II (cannabis) e IV (Benzodiazepine). Facendo così passare il Comitato Promotore per un gruppetto di stolti o peggio turlupinatori che volevano legalizzare la cocaina, quando invece sin dall’inizio aveva chiarito che il quesito mirava a depenalizzare le condotte di coltivazione ad uso personale di tutte le piante.

Il Palazzo della Corte appare oggi una torre d’avorio in cui i Giudici non tengono in alcun modo in conto il mutato sentire della società, la naturale ed evidente evoluzione del diritto vivente (si pensi alla decisione della Corte di Cassazione sulla coltivazione ad uso personale) e financo le diverse condizioni internazionali, che a partire dai 19 stati USA dove la cannabis è legale, vedono Uruguay, Canada e Malta aver già avviato la regolamentazione legale e Lussemburgo e Germania in procinto di farlo. Senza alcuna ripercussione rispetto agli obblighi internazionali derivanti dalle tre Convenzioni Internazionali sugli stupefacenti.

Diviene plasticamente evidente come il sistema istituzionale del nostro paese sia entrato in una crisi irreversibile. Il Parlamento, incapace di esprimere maggioranze omogenee e governi duraturi, non riesce nemmeno ad eleggere il Presidente della Repubblica. Immobile da decenni sulle droghe, non riesce ad affrontare altri temi, sensibili perché sentiti dalle persone, come l’eutanasia, la cittadinanza, ma anche il livello dei redditi dei lavoratori dipendenti ed autonomi e la crisi climatica. La distanza fra i cittadini, i loro bisogni, e le Istituzioni è ormai incolmabile, come evidenzia la partecipazione al voto. Ora è la Corte Costituzionale a ergersi ultimo baluardo a difesa di uno Stato in piena crisi sistemica ponendo una pietra tombale sull’ultimo strumento rimasto in mano ai cittadini, il referendum.

fonte: FUORILUOGO

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