E se la Corte costituzionale avesse commesso un errore? Intendo dire: se fosse caduta in un grave equivoco proprio nel considerare i testi di legge sui quali era destinato a intervenire il referendum in materia di depenalizzazione della coltivazione domestica di alcune piante di cannabis? È possibile ipotizzarlo se si ascoltano le parole pronunciate, nel corso di una conferenza stampa, dal presidente della Consulta Giuliano Amato. Si dovrà attendere il dispositivo della sentenza prima di dare una valutazione definitiva ma, al momento, qualcosa non torna. Il ragionamento è complesso e richiede un po’ di pazienza.
Il presidente Amato ha sottolineato come il comma 1 dell’articolo 73 faccia riferimento alle “tabelle 1 e 3 delle sostanze stupefacenti, che non includono nemmeno la cannabis, che si trova nella tabella 2”. Facendo intendere che questo sia avvenuto per un errore materiale dei promotori del Referendum. Così non è. Infatti, il comma 4 richiama testualmente le condotte di cui al comma 1 dello stesso articolo 73, tra le quali è ricompresa proprio quella della coltivazione. Appare evidente, dunque, come non si possa prescindere da una lettura combinata dei due commi. In altre parole, i proponenti non hanno fatto riferimento al comma 1 perché volevano legalizzare la coltivazione di “droghe pesanti”, bensì perché non si poteva fare altrimenti, dal momento che i due commi sono correlati.
In ogni caso – ed è quanto esposto nella memoria difensiva del quesito e nel corso dell’udienza in Corte – questo non avrebbe comportato automaticamente la libera produzione di ogni tipo di sostanza. Il termine “coltiva” fa riferimento alle piante: l’unica pianta che è possibile consumare come stupefacente è la cannabis. Si possono coltivare – certo con grandi difficoltà e in determinate regioni del mondo – papavero e coca ma per consumarle come stupefacenti occorre trasformarle: la “produzione, fabbricazione, estrazione, raffinazione” sarebbero rimaste punite nel comma 1 dell’articolo 73.
Il presidente Amato, inoltre, ha affermato che l’eventuale approvazione del quesito avrebbe comportato la violazione di “obblighi internazionali plurimi che sono un limite indiscutibile dei referendum”. Ma va ricordato che sono numerosi i paesi come il Canada, diciotto Stati degli USA, l’Uruguay e, in ultimo, Malta – che hanno depenalizzato la coltivazione domestica, senza che ciò abbia comportato la sospensione delle convenzioni internazionali.
Va ricordato, poi, che il referendum sulla cannabis ha subito in questi mesi un processo di deformazione e di alterazione del suo reale significato. È stato un grave errore considerarlo come materia di esclusivo interesse per gli ultimi “fricchettoni” dell’Occidente, per gli adolescenti in cerca di emozioni forti e per gli incanutiti coltivatori di memorie all’insegna di “Peace&Love”. Insomma, una sgualcita riedizione del festival di Woodstock o il sequel di film come Harold e Maude e L’erba di Grace per un pubblico di giovani e vecchi “accannati”.
Si deve tener conto che le stime più attendibili parlano, per la sola Italia, di oltre sei milioni di consumatori, presenti in tutte le fasce di età. E non solo: la possibilità di coltivazione domestica di piante di cannabis avrebbe un effetto importante su quella drammatica situazione rappresentata da molte migliaia di malati affetti da patologie come sclerosi multipla, dolore oncologico cronico, cachessia (in anoressia, HIV, chemioterapia), glaucoma, sindrome di Tourette. In Italia, sin dal 2007, il ricorso a farmaci cannabinoidi è legale, ma la possibilità concreta di ricorrervi è resa ardua da molti ostacoli: difficoltà di approvvigionamento, scarsa disponibilità dei medici alla prescrizione, costi assai eccessivi per un uso frequente, ridotta produzione nazionale. Il che impone il ricorso al mercato estero e la conseguente intollerabile lentezza per l’acquisto e l’ulteriore aumento dei prezzi. La possibilità di coltivazione presso il proprio domicilio non solo avrebbe consentito a un numero crescente di pazienti di ricorrere a quei farmaci alleviando le proprie sofferenze, ma li avrebbe sottratti al mercato clandestino e alla inevitabile penalizzazione. Come è accaduto in anni recenti – porto due esempi tra i molti – a Walter De Benedetto e Fabrizio Pellegrini. Il primo affetto da artrite reumatoide e il secondo da fibromialgia ed entrambi sottoposti a perquisizioni, arresti, processi e condanne.
Infine un’ultima considerazione. Per il referendum sulla depenalizzazione dell’eutanasia sono state raccolte 1.239.423 firme, per quello sulla cannabis cinquecentomila in sette giorni: due importanti occasioni di mobilitazione collettiva e di partecipazione popolare nell’epoca in cui la crisi dei partiti conosce il suo punto più basso; e nella fase che vede il ruolo del parlamento intorpidirsi in una sorta di sospensione afasica. È ovvio che le decisioni della Corte costituzionale non debbano tener conto di tali fattori “politici”, ma resta il timore che sentenze come quelle su temi di così intensa emotività possano determinare un sentimento di frustrazione, difficilmente sanabile.