Quando andare in pensione? Una questione di equità. di Chiara Ardito

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L’invecchiamento della popolazione ha spinto nel corso degli ultimi decenni i governi di tutto il mondo ad aumentare l’età pensionabile per garantire la sostenibilità dei sistemi pensionistici e delle finanze pubbliche. Il necessario inasprimento dei requisiti pensionistici ha suscitato un crescente dibattito circa la sostenibilità del lavoro ad età elevate destando preoccupazioni per la salute di quelle categorie professionali esposte a carichi fisici e psicologici più intensi (Ardito & d’Errico, 2019; d’Errico et al. 2022) e circa il rischio di un effetto redistributivo regressivo indotto dalle diseguaglianze sociali nella speranza di vita (Ardito, Leombruni & Costa, 2019).

E’ infatti noto dalla letteratura sulle disuguaglianze sociali di salute che l’aspettativa di vita cresce man mano che si salgono i gradini della scala sociale, comunque la si misuri, attraverso il titolo di studio, il reddito, la classe sociale o occupazionale. L’aspettativa di vita però, oltre a essere il più diffuso indicatore di salute di una popolazione, è anche un parametro chiave di molte regole pensionistiche. E’ con la riforma Dini e l’introduzione (seppure in modo graduale) del sistema di calcolo  contributivo, e poi con la riforma Saccone, che si inseriscono esplicitamente le stime sulle speranze di vita e il loro periodico aggiornamento nei due istituti principali della attuale normativa pensionistica: i coefficienti di trasformazione, che in un sistema contributivo traducono in pensione annua il montante contributivo, e i requisiti di età e contribuzione minimi per l’accesso alla pensione (Ardito, Leombruni & Costa, 2019).

E’ così che, incardinando l’eleggibilità e l’ammontare della pensione alla speranza di vita media nella popolazione, disuguaglianze nell’aspettativa di vita generano conseguenze inattese in termini di redistribuzione. Il meccanismo è intuitivo: persone con una speranza di vita inferiore alla media ricevono il beneficio pensionistico per un periodo più breve incorrendo quindi in una perdita di ricchezza pensionistica rispetto quella idealmente equa dal punto di vista attuariale, ossia quella che eguaglia il totale dei contributi versati nel corso della vita lavorativa rivalutati a prezzi correnti al totale dei benefici pensionistici. Al contrario, le categorie a speranza di vita superiore alla media, beneficeranno di un “premio” pensionistico, finanziato di fatto dalle categorie più svantaggiate. Caselli & Lipsi (2018) stimano per l’Italia che la perdita in termini di assegno pensionistico subita da lavoratori a basso livello di istruzione, derivante dall’adozione di coefficienti di trasformazione basati sull’aspettativa di vita media invece che specifici, ammonta a circa il 2.7% il valore atteso. A parità di montante contributivo, un uomo con elevata istruzione invece beneficia di un “premio” di circa il 4.4%.

Risulta quindi evidente come sia fondamentale monitorare l’evolversi dei differenziali di mortalità, non solo per ragioni di salute pubblica ma anche per questioni di equità. In un recente lavoro Ardito e coautori (2022) hanno studiato l’evolversi nell’ultimo trentennio del differenziale nella aspettativa di vita per livello di reddito e per classe sociale nei lavoratori dipendenti del settore privato. La fonte informativa principale utilizzata è quella INPS, che permette di studiare le differenze di aspettativa di vita nella forza lavoro italiana del settore privato, che è quello a maggiore concentrazione di lavoro gravoso. I dati dispongono di una buona profondità retrospettiva nella storia lavorativa e pensionistica del settore privato, e permettono una accurata rilevazione anche del dato relativo al decesso dell’assicurato.  Per confrontare nel tempo l’evolversi della speranza di vita, si sono confrontati tre coorti di lavoratori, ovvero quelli presenti nel 1990-1994, 1995-1999 e 2000-2004, con un follow up di mortalità di 19 anni. La tecnica utilizzata per la stima della speranza di vita è quella delle life table.

I risultati mostrano che in Italia anche nelle coorti più recenti di lavoratori, uno stato socioeconomico inferiore (misurato sia col reddito sia con la classe sociale seguendo lo schema di Schizzerotto) è associato a un’aspettativa di vita significativamente inferiore. Questa differenza è minore tra le donne rispetto agli uomini, e minore al Sud rispetto al Nord. I lavoratori di sesso maschile di 65 anni appartenenti al 10% più povero muoiono in media 2 anni prima rispetto al 10% più ricco, con importanti differenze regionali. Il divario più importante si riscontra in particolare in Lombardia, dove salgono a 3 gli anni di svantaggio di vita attesa che un uomo di 65 anni può attendersi. Lo studio mostra inoltre come il divario socioeconomico della speranza di vita a 65 anni sia aumentato significativamente nel tempo, per effetto di un diverso ritmo di crescita dall’aspettativa di vita. La speranza di vita è infatti aumentata di circa il 5% per i dirigenti e per i lavoratori appartenenti al quartile di reddito più alto, mentre fra i lavoratori manuali e quelli a salario più basso si osservano valori quasi stagnanti della speranza di vita nel corso del periodo osservato.

Per confermare su una fonte indipendente i risultati limitati al lavoro dipendente privato, il lavoro di Ardito et al. (2022) replica l’ analisi utilizzando lo Studio Longitudinale Torinese, e seguendo nel tempo i differenziali osservati nei tre censimenti del 1981, 1991 e 2001 fra classi occupazionali. Anche in questa popolazione di lavoratori, comprendente in questo caso anche il settore pubblico e il lavoro autonomo, si osservano diseguaglianze in aumento nella speranza di vita a 65 anni.

Risultati simili sono stati riscontrati in numerosi altri paesi europei, in Canada e negli USA, e tutti evidenziano come siano in atto processi e meccanismi che acuiscono la differenza nella speranza di vita fra gruppi sociali (per una revisione della letteratura internazionale, si rimanda ad Ardito et al. 2022).

A fronte di questi risultati, che mostrano come le diseguaglianze di mortalità e speranza di vita alla soglia della pensione non solo siano presenti, ma significativamente in aumento, risulta impellente per il legislatore adeguare la normativa pensionistica e avviare una profonda riflessione degli altri meccanismi compensatori disponibili dal complesso sistema di welfare italiano.

A cura di Chiara Ardito – Servizio di Epidemiologia ASL TO3 e Università di Torino

chiara.ardito@unito.it

Riferimenti bibliografici:

Ardito, C., & d’Errico, A. (2018). The dark side of work life extension: health, welfare and equity concerns. Sociologia del lavoro, 150, pp. 101-119.

Ardito, C., Leombruni, R., & Costa, G. (2019) Social differences in health and equity in the Italian pension system, the Journal of Social Policy, vol. 3

Caselli G. e Lipsi R. M., 2018, Survival inequalities and redistribution in the Italian pension system, Vienna Yearbook of Population Research, 16, pp. 83-110.

d’Errico A., Ardito C., Leombruni R., Odone A., Ricceri F., Sacerdote, C., Costa G. and of the Italian Working Group on Retirement and Health (2022), Working Conditions and Health Among Italian Ageing Workers. Social Indicators Research. https://doi.org/10.1007/s11205-021-02862-w

fonte: DISUGUAGLIANZE DI SALUTE

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