Il quadro normativo e l’avvio di un finanziamento per realizzare le Case di Comunità, seppure non nella dimensione auspicata, hanno fatto, nell’ultimo anno, notevoli progressi e speriamo che si tratti di elaborazioni e proposte utili quali livelli di partenza per implementare la sanità territoriale e non semplici ipotesi da vanificare nel corso delle trattative con le varie lobby o non applicandole adeguatamente, come è occorso per altri provvedimenti (Decreto Balduzzi, insegna!)
Le scadenze del PNRR si avvicinano e il Governo ci informa che gli adempimenti previsti in accordo con l’Europa sono tutti rispettati. In particolare, in riferimento alle Case della Comunità (CdC), nella informazione trasmessa al Parlamento in data 23 dicembre si specifica che: “È stato concluso il ciclo di incontri finalizzato ad una prima ricognizione dei progetti. Entro il 28 febbraio 2022 ciascuna Regione definirà il proprio piano operativo contente piani di azione volti all’individuazione dei siti”.
Le ulteriori tappe per realizzare quanto previsto sono riassunte nella seguente tabella del documento del Ministero della Salute (Misure di attuazione del PNRR, Dicembre 2021).
Si tratta di una “lunga marcia” (vedi APPENDICE) il cui traguardo si inizia a intravedere, seppure permangono, lungo il percorso, alcuni ostacoli evidenti e molti invece occulti.
Il progetto delle Case della Salute prende le mosse agli inizi degli anni duemila, quindi circa un ventennio fa, promosso da Bruno Benigni, in quegli anni dirigente dello SPI CGIL. L’idea era mossa dalla necessità di dare una adeguata risposta alla chiusura dell’Ospedale di Castiglion Fiorentino, dove Bruno viveva, offrendo una corretta ipotesi di riconversione della struttura; un progetto che si inscriveva in una articolata e approfondita riflessione sulla sanità territoriale, sulla necessaria integrazione fra servizi sanitari e sociali e nella riflessione sulla rilevanza della partecipazione per promuovere la salute. Una concezione maturata nella sua lunga esperienza amministrativa in Provincia di Arezzo e, successivamente, in qualità di assessore ai servizi sociali della Regione Toscana.
Le Case della Salute furono poi promosse da iniziative del Ministro della sanità, Livia Turco, sia con un ampio confronto che con un finanziamento per avviarne la sperimentazione.
Per oltre un decennio iniziative e incentivi a livello nazionale sono stati sostanzialmente assenti, non in grado di incentivare le Regioni e di collocare i MMG in tali strutture, limitandosi qualche richiamo di rito nei diversi piani sanitari e nel Piano Nazionale della Cronicità del 2016.
Il quadro complessivo che si è così attuato nelle regioni risulta assai variegato; ad esempio l’Emilia-Romagna ha 124 Case della Salute, il Veneto 77, la Toscana 76, il Piemonte 71, la Sicilia 55, il Lazio 22, mentre la Lombardia, La Valle d’Aosta, le Provincie Autonome di Bolzano e di Trento, il Friuli Venezia Giulia, l’Abruzzo, la Puglia e la Campania non ne hanno realizzata alcuna.
Nel novero di quelle in attività si riscontrano realizzazioni corrispondenti agli intendimenti e obiettivi di una Casa della Salute ma, in molti casi, ci si è limitati ad un accorpamento di alcuni servizi all’interno di poliambulatori a cui si è modificata la etichetta. Inoltre assai generalizzata è la difficoltà, stante l’attuale normativa contrattuale, di inserire nella Case della Salute i Medici di medicina generale (MMG) nonché assicurare la copresenza di servizi sociali.
Malgrado l’arretratezza complessiva della situazione nazionale alcune Regioni – in particolare l’Emilia Romagna – hanno promosso un monitoraggio e una valutazione dell’impatto su indicatori di cura e sono state documentate, in pubblicazioni, le innovazioni e le buone pratiche in atto.
La pandemia ha evidenziato, come noto, la debolezza della sanità territoriale, riportando l’attenzione sul tema delle Case di Salute, quale presidio territoriale fondamentale per una risposta integrata e appropriata ai bisogni di salute. Tale obiettivo è stato pertanto inserito nel PNRR, in larga parte grazie allo sviluppo di una forte iniziativa da parte di un’ampia rete di istituzioni, sindacati e associazioni che ha dato vita alla Rete Salute Welfare Territorio.
A livello nazionale (Agenas, alcune Fondazioni ecc.) sono stati predisposti alcuni documenti: una preliminare ipotesi di 1.280 Case della Comunità – CdC (attualmente il termine in uso) articolate in Hub e Spoke. Gli Hub più complessi, 1 ogni 100.000 abitanti (la dimensione ipotizzata del distretto) e le Spoke, connesse alle Hub, ogni 20 – 35.000 abitanti. Con ogni evidenza il finanziamento del PNRR si sarebbe indirizzato (prevalentemente) sulle Hub, mentre le Spoke sarebbero state realizzate autonomamente dalle Regioni.
L’evoluzione della documentazione negli ultimi mesi indica invece 1.350 CdC, di tipo Hub, mentre non vengono date indicazioni per eventuali CdC Spoke; in data 12 gennaio è stata approvata in Conferenza Stato Regioni la ripartizione programmatica delle risorse destinate, per ciascuna Regione. Si tratta pertanto di una CdC ogni 44.000 abitanti.
Ovviamente ogni Regione potrà poi utilizzare parte dei finanziamenti per adeguare le strutture attuali ovvero integrare, con Fondi regionali, i progetti finanziati dal PNRR. Ad esempio la Regione Toscana ha indicato, oltre le 70 Case della Comunità previste nel PNRR, 82 già esistenti e 8 realizzate con fondo complementare regionale (Regione Toscana. Decisione n. 36 del 20/12/2021). Pertanto un totale di 153 – 160 case di Comunità, che configura un rapporto CdC /abitanti fra i 23.000 e i 24.000, in linea con le indicazioni emerse nei preliminari documenti Agenas (1 Hub ogni 40 – 50.000 abitanti e alcune CdC Spoke).
Raggiungere tale obiettivo necessita di un processo che parte dalla individuazione capillare delle risorse già presenti e delle nuove necessità: strutture già esistenti e corrispondenti alle caratteristiche necessarie per quanto devono effettuare; edifici da adeguare; pianificazione delle CdC di nuova realizzazione ecc. Si tratta di una ricognizione e di una attività di programmazione e successiva governance che, certo in misura assai più consistente che per altri progetti del PNRR, comporta inevitabilmente un coinvolgimento non solo delle Regioni, ma dei Comuni e delle comunità di cui queste strutture devono rappresentare – appunto – la “Casa”.
Allo stato attuale, tuttavia, e non lungi dalle successive scadenze previste per attuare il PNRR, risulta difficile individuare adeguate tracce di attuazione della Raccomandazione della Commissione Europea rivolta al Governo italiano in occasione della proposta al Consiglio europeo di approvazione del PNRR italiano: “Per garantire la responsabilizzazione dei soggetti interessati, è fondamentale coinvolgere tutte le autorità locali e tutti i portatori di interessi, tra cui le parti sociali, durante l’intera esecuzione degli investimenti e delle riforme inclusi nel piano”.
Permane inoltre un ampio margine di opacità nei successivi due percorsi da intraprendere per realizzare e mettere in funzione le CdC; processi che sono strettamente connessi, ma con tempi di pianificazione e realizzazione diversificati. Possiamo definirli in termini di Forma (la struttura, l’edificio) e Contenuto (le attività che vi vengono espletate e l’organizzazione complessiva).
Ovviamente i due elementi sono in parte connessi e interdipendenti: la Forma che si darà alla Casa della Comunità ne incentiverà il contenuto. Lo renderà possibile, qualora ve ne siano le condizioni organizzative – istituzionali; lo renderà invece di fatto impraticabile se la sua forma non sarà adeguata alle attività e allo svolgimento delle funzioni ipotizzate.
La Forma: l’edificio e la rete
Con tale termine si fa riferimento alle caratteristiche della struttura, non solo sotto il profilo architettonico, ma di adeguata localizzazione nel contesto del territorio di riferimento.
Gli interventi potranno essere orientati verso soluzioni diversificate:
1. realizzare nuove strutture;
2. utilizzare immobili dismessi o con diversa destinazione d’uso;
3. riqualificare, anche strutturalmente, le attuali Case della salute (ove esistenti) e i poliambulatori.
Manca, o quanto meno non è accessibile, alla data attuale, una mappatura delle strutture esistenti e – parallelamente – una traccia (e un confronto) sulle caratteristiche strutturali – allocative di quelle di nuova realizzazione anche al fine di identificare quali debbano essere di livelli hub e di livello spoke.
Ciascuna delle ventun Regioni e Provincie autonome che riceve il finanziamento dovrebbe – logicamente – fin da ora aver censito e aggiornato le informazioni sulle caratteristiche delle proprie strutture ed effettuata una prima ipotesi di reperimento di nuovi edifici o di localizzazione dei nuovi stabilimenti che intende realizzare. Sono pertanto necessarie una serie di valutazioni per rispondere a molteplici problematiche e quesiti, di carattere:
– Normativo: L’edificio è in proprietà, in comodato d’uso, in affitto? É di proprietà di altro ente pubblico?
– Strutturale: Disponibilità di rilievi architettonici aggiornati. Valutazione della adeguatezza sismica e antincendio. Corrispondenza dei locali sanitari alle normative nazionali e regionali di accreditamento. Accessibilità per non autosufficienti. Cablaggio dei locali. Necessità di ampliamento per adeguare l’edificio a trasformarsi da Casa della salute (o poliambulatorio) a Casa della Comunità, con la indispensabile integrazione dei servizi sociali
– Urbanistico: La destinazione urbanistica è coerente con l’utilizzo ipotizzato? Sono possibili ampliamenti? Vi sono parcheggi pertinenziali o pubblici? È necessario ridefinire i percorsi dei mezzi pubblici e le relative fermate: autobus, tramvia, metropolitana?
Se tali quesiti si pongono per valutare edifici già disponibili e talora già utilizzati per attività sanitarie o in cui è già collocata una Casa della salute, a maggior ragione la progettazione di nuove CdC e la loro collocazione urbana presuppongono la consapevolezza che si intende realizzare una struttura che svolge plurime funzioni, di tipo sanitario, sociale, educativo e di partecipazione pubblica. Un edificio che pertanto sia riconoscibile, abbia una propria identità sia rispetto al territorio di appartenenza che alla rete di funzioni che esercita. Un edificio che offra spazi che favoriscono le relazioni sociali, senza le quali non può definirsi “Casa della Comunità” e che ha rapporti di vicinanza e integrazione con altre funzioni pubbliche prossimali: la farmacia, l’ufficio postale, l’asilo nido, il plesso scolastico, l’area verde…
La individuazione dell’area e lo sviluppo urbanistico che in tale zona il Comune, attraverso i propri strumenti di pianificazione, intende promuovere, ne caratterizzeranno la “accessibilità” nel senso più ampio del termine.
Su tali problematiche manca un pubblico dibattito e da parte dell’ANCI (Associazione nazionale dei Comuni italiani) ci si limita a dichiarazioni e presenze nei vari Forum salute; anche la documentazione di fonte regionale è estremamente limitata o assente salvo qualche – parziale – eccezione che non configura certo una risposta alle questioni sopra richiamate.
Ad esempio la Regione Lombardia, che parte da una totale assenza di precedenti realizzazioni, ha predisposto una mappatura di 218 terreni o immobili da destinare a CdC con il relativo stato di proprietà; la Regione Toscana ha avviato una sperimentazione si tre case di Comunità già funzionati, con la finalità di definire linee di indirizzo/standard di attività quali indicazioni per estendere il modello alle CdC di tutta la Regione.
Vi è inoltre la questione della connessione – informatica e funzionale – fra la Casa della Comunità Hub e altre strutture a cui dare una funzione Spoke e, in particolare, con gli ambulatori dei MMG.
Allo stato attuale lo studio del MMG viene considerato un locale “non aperto al pubblico” (sic!). non solo quello singolo, ma anche quello associato. Pertanto sette medici che condividono l’attività e hanno complessivamente 10.000 assistiti (e relativi accompagnatori), non utilizzerebbero un luogo aperto al pubblico, con la conseguenza che tale struttura non è idonea a svolgere molte attività routinaria e straordinaria (ad esempio vaccinazioni). Una evidente configurazione normativa non confacente alle funzioni che gli si attribuiscono, come si è ben evidenziato nel corso di questa pandemia, e inadatta a consentire una funzione, anche “satellitare”, rispetto alla CdC.
Conseguentemente a tale classificazione normativa lo studio del MMG non necessita dell’autorizzazione del sindaco per l’idoneità igienico – sanitaria e non è prevista l’eliminazione della barriere architettoniche. A tale situazione si accompagnano pochissime e vetuste indicazioni in merito al locale di visita (non è prescritto il lavandino e non sono indicati i mq.), alla sala di attesa (sono indicate 6 sedute che, in situazione di distanziamento per pandemia si riducono evidentemente a 2) e la dotazione tecnologica prevista risulta limitatissima: sfigmomanometro, fonendoscopio, lampada, martello neurologico e spillo, termometro, abbassalingua… Una descrizione di un ambulatorio che sembra uscita da un racconto di Giovanni Verga!
Dovendo mettere “in rete” tali strutture con la CdC e dotarle di attrezzature da parte del SSN, appare necessario un percorso di conformità a standard, con norme che, differenziando per tipologia di ambulatorio per singolo professionista o associazione, per periodicità di attività e localizzazione, facilitino e incentivino il loro progressivo adeguamento .
Il Contenuto: le attività e l’organizzazione
In merito al contenuto le ipotesi messe a punto a livello da Agenas e Regioni sono più esplicite e riguardano sia le funzioni da svolgere, che, nella recente proposta, la Convenzione per i MMG, in cui si esplicitano nuove forme di inserimento all’interno della CdC
La proposta messa a punto identifica due “categorie” di MMG: quelli che operano per i propri assistiti all’interno della CdC (12 – 20) e quelli, invece, che operando nei propri ambulatori (30 – 35) dedicano alla CdC 2 ore settimanali; dettaglia poi gli orari (Continuità assistenziale h 24 x 7 giorni e ambulatori medici h 12 x 2 giorni) e ne definisce il personale infermieristico (7- 11 infermieri e 1 coordinatore – 5-8 unità di supporto).
Tale ipotesi viene bocciata dalla FIMMG, in una incoercibile “coazione a ripetere” di freudiana memoria, mentre la CGIL Funzione pubblica ritiene inadeguate le due ore, richiamando la necessità di un inserimento organico in equipe multiprofessionali e multidisciplinari.
A fine dicembre viene messa a punto una più adeguata ipotesi di Convenzione con i MMG, che prevede un loro inserimento nelle CdC. Il criterio base è un orario di lavoro di 38 ore settimanali, da svolgere nel proprio studio e completare nella CdC. I MMG massimalisti completeranno l’attività ambulatoriale con 12 ore settimanali svolte per iniziative definite dal Distretto e/o dalla Casa della Comunità (PDTA, PAI, progetti di salute, campagne di prevenzione, vaccinazioni, assistenza domiciliare, telemedicina, attività di studio e ricerca). Tali attività, a secondo delle loro caratteristiche, possono essere svolte presso la CdC (hub e spoke), lo studio del MMG, la sede della AFT, altri locali individuati dalle autorità sanitarie. Sei ore settimanali devono essere svolte all’interno della Cdc anche con impregno professionale per interventi multidisciplinari e multiprofessionali.
I MMG non massimalisti completeranno l’impegno orario: presso la CdC per tutte le ore necessarie a raggiungere il numero massimo di ore (20) di attività ambulatoriali e le rimanenti ore settimanali sono a disposizione per attività e progetti promosse dal distretto (di cui almeno 6 ore nella CdC).
Considerazioni conclusive
Il quadro normativo e l’avvio di un finanziamento per realizzare le CdC, seppure non nella dimensione auspicata, hanno fatto, nell’ultimo anno, notevoli progressi e speriamo che si tratti di elaborazioni e proposte utili quali livelli di partenza per implementare la sanità territoriale e non semplici ipotesi da vanificare nel corso delle trattative con le varie lobby o non applicandole adeguatamente, come è occorso per altri provvedimenti. Il Decreto Balduzzi insegna!
Vi sono molti aspetti che, tuttavia, risultano non adeguatamente affrontati:
1. L’integrazione sanitario – sociale. Questa fondamentale questione resta totalmente ai margini dei provvedimenti e delle indicazioni, mentre è stata posta come centrale da parte di molte associazioni, stakeholder, esperti. La copresenza dei servizi sociali all’interno della CdC risulta solo “fortemente raccomandata”, mentre sarebbe indispensabile condizionare almeno parte del finanziamento alla presenza dei servizi sociali, sia perché risultano necessari a un corretto svolgimento delle funzioni di tale struttura, sia per coinvolgere i Comuni, titolari di tali attività, nella realizzazione della CdC.
2. La Comunità: Alla scelta di utilizzare tale sostantivo al fine di definire la “Casa”, non corrisponde alcuna traccia della Comunità nella progettazione della struttura e delle funzioni che a questa vanno attribuite. Non è stato promosso alcun dibattito pubblico e non si rilevano proposte metodologiche per un coinvolgimento nelle fasi successive, comprese quelle per la individuazione degli edifici, dei terreni su cui edificare nuove CdC. Manca inoltre qualsiasi indicazione che solleciti la individuazione negli edifici di locali a disposizione della Comunità
3. Il Distretto. La realizzazione CdC all’interno del Distretto e l’inserimento di personale dipendete (medici, infermieri, operatori socio-sanitari, amministrativi) e dei MMG in tali strutture necessita di un livello gestionale – professionale adeguato, sia a livello di Distretto che a livello delle Cdc Hub. Vi è quindi la necessità di formare il personale dirigente e di concordare i criteri gestionali che intercorrono fra CdC – Distretto – Azienda Usl – Municipalità
4. Il personale. Il problema del personale sembra essere considerato – misteriosamente – come una variabile indipendente alla messa in funzione di queste strutture. La legge Finanziaria ha rappresentato indubbiamente una “boccata di ossigeno” avendo stabilizzato 48 mila precari. Si tratta del personale assunto per l’emergenza Covid, ma anche per sostituire i pensionamenti, le dimissioni volontarie (sempre più frequenti), gli operatori malati o in quarantena (oltre 13 mila), quelli sospesi perché non vaccinati.
Ora si tratta di affrontare non l’emergenza, ma il fabbisogno di personale fra 3- 5 anni, con l’avvio delle CdC. Oltre ad altre attività previste dal PNRR, quali l’assistenza domiciliare, gli Ospedali di Comunità, per le Cdc (solo in riferimento a quelle Hub) necessitiamo – limitandosi al personale infermieristico – di:
– Coordinatori infermieristici: 1.350
– Infermieri: 10.800 – 16.200
– Personale di supporto (amministrativo ecc.): 6.750 – 10.800
Si tratta pertanto di pianificare fin da ora la formazione di personale e ripensare anche ai livelli retributivi – per medici e infermieri – che risultino competitivi rispetto alla sempre più frequente migrazione verso altri paesi o il privato.
In mancanza di chiari orientamenti su tali problematiche (o dell’insana ipotesi di sottrarli agli ospedali, alle RSA, ai servizi di assistenza domiciliare!) il futuro delle CdC resta incerto o affidato, come prospettano alcuni documenti (vedi la Regione Lombardia) alla gestione privata. Si tratterebbe di una soluzione che offre ai privati le strutture realizzate con il debito pubblico addossato alle prossime generazioni; strutture che peraltro rappresentano il punto di accesso al Servizio sanitario nazionale, e quindi la presa in carico e il conseguente orientamento dei cittadini nel loro percorso sanitario e sociale.
Le varie Associazioni culturali, sociali e di volontariato e i Sindacati confederali hanno svolto, su tutte queste problematiche, una ricca e articolata elaborazione e valide proposte. Da parte delle Forze politiche manca invece un’adeguata riflessione e conseguenti orientamenti per una fase così rilevante del nostro sistema di welfare.
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