Gentile Direttore,
vorrei provare a fare un poco di chiarezza nella speranza di migliorare l’informazione circolante sul Bonus Psicologi. Si sta diffondendo l’idea che si contrappongano una politica sorda alla sofferenza umana psichica, assorbita com’è dalla gestione dell’arida economia, e una parte del paese che rivendica le ragioni dell’ascolto e della psicologia impegnandosi in una battaglia di progresso culturale e sociale.
Sembrerebbe tutto semplice ma così non è. D’altra parte come potrebbe essere altrimenti in un’Italia che mostra enormi arretratezze nell’immagine pubblica e sociale della cura di parola benché laurei ogni anno migliaia di psicologi a cui non offre lavoro e in cui la confusione tra psicologo, psichiatra, psicoterapeuta, psicoanalista ancora interroga troppe persone, anche quelle provviste di strumenti per avere le idee più chiare?
E, aggiungerei, che ha promosso per legge, nel 1978, un’organizzazione capillare territoriale per la tutela della salute mentale lasciandola poi andare alla deriva alimentando l’idea che essa serva solo a somministrare farmaci e a rinchiudere i matti pericolosi? E che, nel 1989, sempre per legge, ha regolamentato la formazione professionale degli psicoterapeuti a cui, per esercitare la professione, è richiesto un titolo di studi specifico e non una semplice laurea in Psicologia?
La bocciatura dell’emendamento alla legge di Bilancio che revedeva il Bonus Psicologi si inserisce in questo scenario. Ha ragione David Lazzari a ricordare l’efficacia delle cure psicologiche, come pure Luigi Cancrini, su Open, a rivendicare la necessità culturale e sociale della psicoterapia come scelta di politica equa per la salute in una democrazia avanzata e non come bene appannaggio di pochi dotati di mezzi per poterla affrontare. Ora, uno dei punti dirimenti, a mio parere, è proprio questo.
La battaglia per il Bonus, cioè per poter avere accesso a cure psicologiche per un numero limitato, molto limitato, di incontri clinici, non può sovrapporsi a quella per la valorizzazione dell’ascolto, della parola, della capacità di riflessione su di sé e sulle proprie risorse relazionali che è il nucleo stesso di un processo terapeutico.
Non mi pare sia in gioco la difesa della cura psicologica contrapposta ai trattamenti medici farmacologici, sbrigativi e meccanici. E neppure un modello antropologico di uomo/donna che va riparato con medicine adatte che si confronta con quello di soggetti che, attraverso una relazione di cura, possano aver accesso a parti sofferenti di sé e ripristinare così un’accettabile benessere. Su questi princìpi siamo d’accordo in tanti.
Come sul fatto che un modello di cure universalistiche e accessibili quale quello del nostro Sistema Sanitario Nazionale non possa lasciare fuori questa componente della salute senza creare gravi conseguenze per tutti, tanto più nella contingenza innescata ed amplificata dalla pandemia. Fatto sta che la proposta del Bonus non risponde alla logica della bontà delle cure psicologiche ma a quella del mercato del lavoro.
Cure per tutti si, ma a tempo, ad opera di non meglio identificati psicologi e a scadenza. Al termine del bonus si potrà sempre continuare presso uno dei tantissimi studi privati dove, insieme a molti professionisti esperti, un mare di laureati in cerca di occupazione potrà trovare finalmente uno sbocco lavorativo, magari avvalendosi delle centinaia di corsi offerti da un enorme mercato formativo il cui accesso prescinde dal possesso di quegli specifici titoli ancora oggi necessari per fare un mestiere delicatissimo (e bellissimo) come quello dello psicoterapeuta. Deregulation si chiamava in epoca reaganiana.
Siamo sicuri che i sostenitori del Bonus siano consapevoli di questo? E che sia chiaro a tutti che i Dipartimenti di Salute Mentale sono stati desertificati negli ultimi anni ma, se riforniti di personale, potrebbero tornare ad essere un presidio di cure anche psicologiche? E che lo stesso discorso vale per i Consultori Familiari e per la Psicologia scolastica? Siamo tutti certi che le cure psicologiche siano solo quelle che vengono ‘somministrate’ in uno studio privato reso accessibile da una sorta di convenzione ‘a tempo’ con lo Stato? E se pensassimo in termini di comunità, di società e non di mercato?
Potremmo, ad esempio, pensare a una battaglia di cultura e di equità perché le cure psicologiche siano diffuse, di qualità, accessibili e coloro che le praticano degni di rispetto e di riconoscimento professionale. Si potrebbe pensare a un vasto piano in cui i Centri di Salute Mentale vengano ripopolati con professionisti competenti, supervisionati che lavorano in gruppo e pensano in termini di comunità. E i consultori e le scuole dotate di psicologi formati e addestrati che sappiano di bambini, famiglie e adolescenti e insegnanti.
O, ancora, che le RSA, magari organizzate in appartamenti e non in grandi contenitori, si attrezzino con personale capace di accostarsi agli anziani e ai vecchi spaventati e soli che aiuti a gestire gli stati di maggior sofferenza, innanzitutto socializzandoli e non trattando solo i singoli individui. Altri professionisti potrebbero avvicinarsi alle famiglie che hanno perso i loro cari e anche a medici e infermieri che lavorano e vivono ogni giorno a contatto con la morte da COVID. In questo caso servirebbero psicoterapeuti assunti dagli ospedali o dalle RSA che si incarichino di disintossicare il personale dall’esposizione prolungata con la morte, contagiosa quanto un virus ma dagli effetti ancora più insidiosi.
Si tratterebbe, cioè, di pensare in termini di società e non di corporazioni, di progresso civile e non di lavoro a tutti i costi. I giovani psicoterapeuti, formati, lavorerebbero e come! Ci vorrebbe però qualcuno che abbia a cuore la psicologia come disciplina della salute, della riparazione e della relazione, umana e professionale. E politici che ritengano che bambini, adolescenti e adulti un poco più consapevoli saranno e sono anche migliori cittadini.
Antonello D’Elia
Presidente di Psichiatria Democratica (e componente del Coordinamento nazionale per la salute mentale)