Se Urbino, per Carlo Bo, è luogo dell’anima, Borgomanero, per Eugenio Borgna, è luogo dell’anima e della nascita, luogo cui far ritorno dopo una partenza, luogo dove trascorrere i mesi invernali tra passeggiate meditative, letture e scritture, scritture e letture. Il 22 marzo, per Feltrinelli, arriva in libreria “L’agonia della psichiatria”, l’ultimo accorato appello per una disciplina medica che si sta irrimediabilmente spegnendo. Perché? Il professore, 92 anni a luglio, è categorico:
“Perché è scomparsa. Negli ospedali è diventata l’ultima ruota del carro, ha perso slancio e vitalità, ha smesso di essere orizzonte per sentimenti nobili. Si parla di psichiatria per riferirsi soltanto a fatti avversi, folli, crudeli, quando la violenza, all’interno della follia, è meno frequente e crudele di quella di chi viene considerato apparentemente sano, privo di follia. Con Basaglia, rispetto ad altri Paesi europei, l’Italia arrivò ad attuare la 180, per Norberto Bobbio ‘la Legge più rivoluzionaria di sempre’. Passare da un impianto manicomiale a uno territoriale mise al centro del nostro lavoro l’ascolto, il dialogo, la percezione dei silenzi, la vicinanza al dolore. Se ci fossero stati ancora i manicomi, penso a quelli di Roma, Milano e Genova, con lo scoppio della pandemia avremmo assistito a un’ecatombe. La territorializzazione, nonostante tutto, ha saputo rendere meno tragica la condizione dei più deboli, dei più indifesi”.
Nei suoi libri si sofferma spesso sul tema del suicidio. Con la pandemia si è imposta prepotentemente l’immagine della morte, la paura della morte, l’ossessione della morte.
“Sì, l’immagine della morte spoglia, immediata, insostenibile. La morte è diventata un’esperienza di sconvolgente e indicibile solitudine. Sono cresciuti i suicidi, soprattutto tra i giovani. Viene a mancare la speranza, la prospettiva, la vista della luce in fondo al tunnel. C’è anche chi va incontro alla morte accettando il rischio di non vaccinarsi. Sa che ci si può infettare, finire in terapia intensiva e morire, ma la paura del vaccino vince la paura di morire. È davvero incomprensibile come l’uomo possa far male a sé stesso e all’altro, dimenticando che siamo comunità o non siamo, che il dolore riguarda tutti, che nessuno può salvarsi da solo. La scienza indica come proteggerci e come proteggere, come sfuggire al drago dell’oblio. Perché non ascoltarla? A chi dovremmo prestare ascolto in un tempo così cupo? Agli imbonitori? A chi vuole mobilitare le coscienze giocando con la storiella dei complotti? Dobbiamo difendere la vita. Abbiamo l’obbligo di difenderla”.
C’è chi vede, chi non vede, chi non vuole vedere. Ma l’abisso è separabile dall’uomo?
“Si può vivere senza abisso? Lo chiedeva Nietzsche e noi dobbiamo cercare di dare una risposta a questa domanda. Per non finirci dentro, per non farci risucchiare”.
Da quali autori si fa aiutare per rispondere, a quali autori ha affidato la riflessione e la comprensione durante questi due anni?
“Non posso fare a meno di Sant’Agostino, delle parole che il Cardinale Martini, per restare nella sfera della spiritualità, ha scritto su Sant’Agostino. Leggo Georges Bernanos, Teresa d’Avila, Thomas Mann. Leggo Emily Dickinson, Cristina Campo, George Trakl, Antonia Pozzi. Se le parole sono creature viventi, le loro parole, i loro scritti ci accompagnano nella fatica quotidiana, nella complicata lettura delle contraddizioni dell’umano”.
Stiamo salutando il 2021 per entrare nel 2022. Come vive i giorni di passaggio da un anno all’altro?
“Grazie al Cielo faccio le cose che ho sempre fatto. Leggo, ascolto, vedo pazienti che continuano a insegnarmi tanto. La memoria è buona, penso scrivendo, scrivo libri senza prendere appunti”.
Quando dico a Umberto Galimberti che esce un suo nuovo libro, mi domanda: “Ma quanto scrive quest’uomo?”. Gli rispondo, scherzando, che la colpa è sua. È vero o no?
“Certo. Senza l’amico Umberto, avrei continuato a scrivere articoli di psichiatria che nessuno avrebbe letto. Lui mi ha spinto a mettere insieme le pagine, a pubblicare, a far nascere i libri che i lettori premiano con attenzione e generosità”.
Durante il colloquio ho pensato più volte di chiedere al professore: ma lei ha paura della morte? Ho deciso di evitare. Alla stessa domanda, fatta da Lila Azam Zanganeh, Roberto Calasso rispose: “Sì, perché non dovrei? In fondo ne sappiamo molto poco, e la paura è parte di tutto”. Il professore, alla domanda, risponde con i libri, con quelli che legge e quelli che scrive, in dialogo continuo tra la vita e la morte, tra il compito quotidiano da assumere e il mistero che ci attende. Se le nuvole, che vanno e vengono come nella canzone di De André, coprono il sole di Borgomanero, il professore alza lo sguardo al cielo e contempla lo spettacolo che ogni volta si rinnova. Ombre e luci sempre insieme, inestricabilmente legate, al di sopra dei suoi occhi lucidi. È forse questa la migliore risposta. Osservare. Senza paura.
Intervista di
fonte: Huffington Post