Eleonora Camilli (Redattore Sociale) intervista Giovanna Del Giudice, psichiatra, storica collaboratrice di Franco Basaglia e portavoce della campagna “E tu slegalo subito”. “Abbiamo una legge, che ci permette di fare la migliore psichiatria possibile e di prenderci cura delle persone rispettando i diritti. Eppure per l’obiettivo contenzione zero ancora troppe resistenze”
Non sono tre ma cinque i giorni in cui Wissem Abdel Latif sarebbe stato sottoposto a contenzione meccanica. Ad aggiungere un nuovo tassello alla storia del giovane ragazzo tunisino, morto all’ospedale San Camillo di Roma, sono gli accertamenti fatti nei giorni scorsi sulle cartelle cliniche. Secondo le ricostruzioni, infatti, prima di essere trasferito nell’ospedale romano il ragazzo sarebbe stato legato a un letto di contenzione per quarantotto ore anche all’ospedale Grassi di Ostia. Un dettaglio che aggiunge nuovi interrogativi a una vicenda complessa in cui tanti sono gli aspetti ancora da chiarire. Ma la morte di Wissem riporta all’attenzione anche il tema dell’uso e l’abuso della contenzione nei servizi di salute mentale e di cura. Ne abbiamo parlato con Giovanna Del Giudice, psichiatra, presidente della Conferenza Basaglia, storica collaboratrice di Franco Basaglia e portavoce della campagna “E tu slegalo subito”.
Dottoressa Del Giudice, partiamo dal caso recente di cronaca: la morte di Wissem Abdel Latif, un ragazzo tunisino arrivato in Italia appena due mesi fa e morto dopo un periodo di permanenza al Cpr di Ponte Galeria e un trattamento psichiatrico, in cui è stato previsto l’uso della contenzione…
La morte di Wissem Abdel Latif mi rattrista in maniera speciale. E’ una morte avvenuta all’interno di una storia di dolore, come sono sempre le storie delle migrazioni forzate. E’ anche il punto di arrivo di una storia di violazione e sospensione dei diritti nei Cpr italiani. Ed è una morte terribile perché parliamo di un giovane legato a un letto di contenzione per almeno 5 giorni. Purtroppo si tratta della seconda morte avvenuta in contenzione quest’anno nei servizi psichiatrici. Ad aprile è morto un auomo nel Spdc (Servizio psichiatrico di diagnosi e cura, ndr) di Livorno. Si tratta di storie drammatiche, di vite interrotte, che si rappresentano attraverso una morte di un corpo legato. Mi fa sempre impressione l’immagine di un corpo legato che viene trovato morto, perché significa che probabilmente c’è stato un periodo in cui nessuno è stato vicino a quel paziente. Sono storie che si ripetono e che sono assurde nella nostra storia italiana. Noi abbiamo una legge, la 180, che ci permette di fare la migliore psichiatria possibile, e di prenderci cura delle persone rispettando i diritti.
Nonostante la legge 180 però la contenzione meccanica e farmacologica è ancora una pratica diffusa. Diversi istituti e ospedali hanno linee guida in cui viene menzionata e normata. La vostra campagna punta ad arrivare all’obiettivo contenzione zero. Legare le persone, dunque, non dovrebbe essere mai ammissibile, neanche in casi di emergenza?
Sì, la nostra campagna parla chiaramente di abolizione della contenzione. E’ un imperativo etico e scientifico. Ed è un obiettivo che nasce dall’evidenza empirica: in Italia ci sono 21 Spdc, che non legano le persone ancorché in crisi. Se questo è possibile in alcuni Spdc vuol dire che è possibile ovunque. La strada indicata è chiara: è possibile fare a meno della contenzione. Io ho lavorato trent’anni a Trieste e non abbiamo mai legato nessuno. Ho lavorato in altri Dipartimenti di salute mentale in cui la contenzione era una pratica routinaria, in cui c’erano camere di contenzione con letti fissati a terra col cemento, eppure anche lì è stato possibile arrivare all’obiettivo contenzione zero. Quando cambia il paradigma della pericolosità dell’altro con disturbo mentale si può arrivare a questo obiettivo. L’altro aspetto è quello dell’organizzazione dei servizi. Bisogna arrivare prima che esploda il dolore e la sofferenza, bisogna avere servizi territoriali sempre aperti a cui le famiglie possono rivolgersi in emergenza, quando una persona sta male. E’ necessario predisporre sistemi di prossimità vicini alle persone, ai luoghi dove la sofferenza si manifesta e disporre di operatori competenti. La contenzione zero non è solo una pratica possibile ma è anche l’unica che garantisce la cura. Non ci può essere cura se si violano i diritti umani.
Del tema si è parlato anche nel giugno scorso durante la Conferenza sulla salute mentale promossa dal ministero della Salute. Il ministro Speranza ha preso un impegno preciso, ma nella pratica, a che punto siamo?
Per capire la situazione italiana dobbiamo fare un passo indietro. Negli anni ‘70 la contenzione e tutti i metodi manicomiali sono stati messi in discussione in maniera importante. Ci sono stati momenti in cui si è fatto a meno di legare. Queste pratiche sono però tornate nei nuovi servizi della riforma quando la chiusura dei manicomi è stata una chiusura per legge. I nuovi servizi hanno cioè adottato le stesse pratiche che si adottavano prima. Non è stato messo in discussione quello che fondava il meccanismo del manicomio e cioè la convinzione che l’altro è pericoloso e necessita di contenzione e custodia, non di cura. Il problema della sofferenza va invece affrontato in maniera emancipativa. Oggi in Italia la situazione è in movimento. Nel 2008 il Comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura è intervenuto presso il Governo italiano dopo le ispezioni nei servizi psichiatrici dei paesi membri, denunciando un abuso della contenzione nei servizi di diagnosi e cura. Contemporaneamente ci sono stati alcuni casi di morti riconosciute e non silenziate. La prima è quella di Giuseppe Casu in Sardegna, morto dopo essere rimasto legato a un letto per una settimana. Un comitato civico e la famiglia hanno chiesto verità e giustizia. E questa pratica, inumana e degradante, è uscita dai recinti tecnici per arrivare all’opinione pubblica. L’altro caso è quello di Franco Mastrogiovanni nel 2009, di cui sono state rese note anche le immagini e i video. Anche per questa vicenda c’è stata un’ indignazione della comunità, la contenzione è uscita dal sommerso ed è stata conosciuta dai cittadini. Questo, insieme all’intervento del Comitato per la prevenzione della tortura, ha riportato attenzione sul tema. Nel 2010 sono state stilate le raccomandazioni della Conferenza delle regioni per la prevenzione delle contenzioni. Oggi, grazie anche al lavoro di diversi movimenti civici, della campagna “E tu slegalo subito”, si sono fatti passi avanti. Con notevole ritardo finalmente è un argomento di cui si parla. Nessuno può più dire di non sapere. E’ arrivato il momento, però, di affrontare in maniera definitiva questa problematica. Un altro aspetto importante e non secondario è che queste morti oggi sono note, sappiamo che le persone muoiono in contenzione, non c’è più tanta omertà. E non ho timore di dire che queste sono le morti che conosciamo e che probabilmente quelle effettive sono molte di più.
Sulla carta Wissem Abdel Latif è morto per arresto cardiocircolatorio…
Certo, arresto cardiocircolatorio ed embolia polmonare, come Casu, come Mastrogiovanni. Ma ormai sulle cause non c’è più silenzio, si è messo in moto un meccanismo e questo è importante. Di recente la Corte Europea sui diritti umani ha messo sotto sorveglianza l’Italia sul tema della contenzione dopo un ricorso fatto da due avvocate a partire dal caso di un giovane, che per fortuna non è morto. C’è quindi attenzione, anche a livello europeo. Ma ci sono anche tante resistenze.
Chi fa resistenza?
Non da ultimo gli ordini professionali perché legare è più facile. Possiamo legare e dimenticarci della persona fino a trovare Elena Cassetto morta bruciata su un letto nella civile Lombardia. Non legare implica grande professionalità, tempo, capacità di ascolto. Bisogna sostenere quella sofferenza, renderla sopportabile, ridurla. Ci vogliono operatori preparati e un’organizzazione del servizio flessibile. Ci vuole presenza. I tempi non possiamo darli noi a una persona in crisi: deve fidarsi di noi, la paura deve diminuire. Dobbiamo rendere vera l’espressione ‘centralità della persona’.
Quanto incide sul ricorso alla contenzione l’organizzazione del lavoro interna ai servizi e la carenza di personale?
Ci sono due elementi che vanno considerati: la cultura degli operatori e l’organizzazione dei servizi. Il ricorso alla contenzione è più legato a questi due elementi che alla psicopatologia dei pazienti. Se ci sono servizi che funzionano bene nel territorio, che sono aperti quando il bisogno emerge si riesce a prevenire il ‘montare’ della crisi che può portare anche a comportamenti aggressivi e il ricovero. Rispetto ai servizi ospedalieri di diagnosi e cura ci sono poi vari problemi. La legge parla di 16 posti letto al massimo, ma ci sono regioni in cui sono previsti anche 20 posti letto e se nello stesso posto ci sono più persone in crisi, la situazione può diventare facilmente difficile da gestire. Sono servizi spesso chiusi, con porte chiuse e sbarre alle finestre, non attraversati dalla comunità. Infine c’è il problema degli operatori che è stata considerata per anni una delle cause per cui si arriva alla contenzione. Il problema esiste in particolare in questo momento, dopo l’indebolimento nel servizio sanitario delle risorse umane. Però non è solo questo. E’ più importante la cultura degli operatori e della dirigenza. Dove ho lavorato ho sperimentato che mantenendo lo stesso numero di servizi e operatori si può smettere di legare. Non c’è un rapporto diretto tra il numero di operatori e il ricorso alla contenzione, quello che gioca un ruolo fondamentale è come è organizzato il servizio: se esiste un lavoro d’équipe, se le porte del reparto sono aperte o chiuse. Una persona in crisi chiede sempre del medico e di tornare a casa. Molti Spdc sono divisi in blocco: da una parte ci sono i malati, poi ci sono gli infermieri, l’accettazione e, infine, lo spazio dei medici. In questa distanza anche corporea aumenta la tensione e le difficoltà.
Con l’emergenza sanitaria legata al Covid 19 è emerso anche come l’uso della contenzione abbia riguardato molto gli anziani ospitati delle Rsa!
Sì, la questione è emersa durante la pandemia, c’è stato uno studio dell’Istituto superiore di sanità e il Garante nazionale ha fornito dei dati drammatici sulla contenzione degli anziani. Ma è noto da sempre che le persone anziane, se istituzionalizzate, sono più a rischio di contenzione. Purtroppo si tratta di una pratica diffusa nelle case di riposo, negli istituti chiusi per anziani e disabili. Stando ai dati su 400mila anziani istituzionalizzati in Italia almeno 1 su 3 è stato legato. E’ un numero altissimo che deve interrogare e portare a cambiare il paradigma dell’assistenza agli anziani. Deve essere dato un supporto a domicilio alle persone perché la casa possa restare il luogo dove continuare a vivere. Le istituzioni chiuse, invece, sono luoghi di costante violazione dei diritti. Le persone vengono legate quando sono in una condizione di fragilità e debolezza. E quando parlo di fragilità intendo una condizione in cui c’è anche una minore contrattualità sociale.
Al di là dei casi di cronaca qual è la situazione nei territori?
In questo momento c’è maggiore consapevolezza da parte delle istituzioni, degli operatori e della comunità. Oltre ai 21 Servizi di diagnosi e cura che ho citato, ci sono altri servizi che stanno iniziando a lavorare verso la diminuzione della contenzione. Il Friuli Venezia Giulia è l’unica regione che non lega ma anche l’Emilia Romagna dal 2011 sta lavorando attivamente verso l’obiettivo contenzione zero: dal 2011 al 2018 ha ridotto del 71 per cento questa pratica.
Quali sono i dati a livello nazionale?
I dati nazionali non li abbiamo, perché spesso la contenzione si fa ma non si registra. Spesso non ce n’è traccia nelle cartelle cliniche anche quando gli operatori la definiscono ‘atto sanitario’. Dunque è difficile fare un monitoraggio. Va detto però che il ministro Speranza si è impegnato ad arrivare all’obiettivo contenzione zero nel triennio 2021-2023. E le nuove Linee guida del ministero hanno come obiettivo il superamento della contenzione. Consideriamo questo un passo importantissimo: non è una misura che va normata ma superata. Certo, titolari della salute sono le Regioni, quindi questo documento deve essere da loro reso esecutivo. Un risultato a cui mi auguro si possa arrivare presto per smettere davvero di legare le persone, come indicato anche dalla Corte europea dei diritti umani.
FONTE: Redattore Sociale