Sessanta anni fa, il 16 novembre 1961, Franco Basaglia entra da Direttore nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia. Non ne ha mai visto uno. E’ uno psichiatra universitario ma l’università lo ha cortesemente messo alla porta. Franco Basaglia, 37 anni, è un po’ “disallineato” per i canoni della disciplina: legge troppi libri di filosofia, fenomenologi soprattutto, e il suo capo accademico, professor Giovanni Belloni, Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Padova, lo chiama “Il filosofo”. Che non è proprio un complimento.
Quindi gli tocca il manicomio. Quello di Gorizia, ma è un caso. Il direttore di prima si chiamava Antonio Canor, veniva da Pola, era un esule, nel manicomio ci abitava con l’anziana madre. Non usciva quasi mai. L’aveva fatto in un giorno di sole, per andare a trovare un fratello a Udine. Sulla strada tutta dritta verso Gradisca d’Isonzo era finito in un fosso, morto.
Quello che vede Franco Basaglia è uguale a Gorizia come negli altri cento manicomi italiani: persone che non sono più persone, corpi, internati. A Gorizia sono 650, in Italia centomila. I manicomi sono uguali in tutto il mondo, il manicomio è un format. Basaglia scriverà che di quel primo giorno ricorda un odore, che è uguale all’odore che ha sentito diciassette anni prima quando è stato in carcere, da studente, per antifascismo: un odore di morte.
Qualche giorno dopo un episodio che segna qualcosa. L’ispettore capo del manicomio di Gorizia, si chiama Michele Pecorari, porge al nuovo direttore il libro delle contenzioni: l’elenco delle persone che la notte prima sono state legate al letto. Il direttore deve vistarlo. E’ una prassi, un gesto quasi da niente, si è sempre fatto così. Il nuovo direttore è lì con la stilografica in mano – l’ispettore Pecorari gliela ha cortesemente passata – ci pensa un po’ e poi lo dice: “E’ mi non firmo”.
A sessant’anni da quel gesto di rifiuto a Trieste si sono ritrovati in un convegno quelli che non legano al letto le persone. Sono gli operatori di 21 Servizi Psichiatrici Ospedalieri di Diagnosi e Cura che hanno scelto di non legare mai al letto le persone. Anche se sono agitate, molto agitate, fuori come un balcone, fuori con tutto, in crisi dura, disperate e “violente”.
Giovanni Rossi, psichiatra mantovano che tiene le fila dell’associazione – si chiama Club SPDC no restraint – dice che così adesso in Italia ci sono 5 milioni di persone che vivono in posti dove, anche se sei matto, molto matto, agitato, molto agitato ecc. ecc. non ti legano al letto. Cercano di calmarti in altro modo, anche con i farmaci, è chiaro. Ma non ti legano. Succede in Friuli Venezia Giulia e in Romagna. Se abiti in Lombardia è più facile finire legati. All’ospedale Niguarda di Milano hanno messo giù anche delle linee guida per la contenzione. Il Ministro Speranza invece ha favorito la stesura di un documento per il superamento della contenzione. Ora tocca alle regioni dire la loro.
E’ complicato non legare le persone, superare la durezza di una crisi senza aggiungerci altra violenza. Angelo Fioritti, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Bologna, ha raccontato il tormento degli operatori dell’SPDC di San Giovanni in Persiceto, uno dei club che non lega. Non ce la fanno più con un ragazzo debole di mente, incattivito dalla vita e dall’isolamento del lokdown che mette a soqquadro il reparto, è ingestibile e non si riesce proprio a trovare un modo per fermarlo. Allora, con grande tormento, dicono che bisogna fare un’eccezione e contenerlo al letto, anche se non lo fanno più da molti anni. Sono lì con le fascette in mano ma poi dicono di no: legare un’altro umano al letto è anche una cosa che toglie dignità anche a chi lo fa. Ci riprovano, troveranno un modo, non lo legano.
A commento del Convegno SDPC No Restraint “A sessant’anni da Mi No Firmo”
fonte: FSM La Terra è blu