“Questo qui è psicotico”, “Lo faccio per il tuo bene”, “Un quadro clinico sporco da un disturbo di personalità grande quanto una casa” “Ormai è cronico”, “Lui è il mio paziente”.
Frammenti di conversazioni quotidiane nei miei corridoi, gocce invisibili e insonore che non smettono mai di gocciolare. Tac tac.
Nella sala d’attesa del centro di salute mentale, seduto in silenzio ad aspettarmi per quando verrò a chiamarti per la visita. Tu schizofrenia, depressione resistente, disturbo ossessivo compulsivo, mi aspetti paziente.
Io medico in formazione con il camice bianco stirato ieri sera, con le chiavi in tasca per aprire le porte del reparto, con il sapere dei libri sulle labbra e le giornate di sessione d’esame passate sbarrato in casa con a leggere, a sfogliare le pagine dei manuali fotocopiati.
Tu, il mio paziente, in ginocchio a chiedermi la salvezza e io, medico in formazione, che sa come salvarti.
Mentre prendo il cartellino ambulatoriale mi sembra siano ormai inutili il tuo nome proprio, l’odore della tua pelle alla fine delle scale per raggiungere il centro, il rumore dei tuo passi quando ti aggiri solo o perseguitato nei tuoi luoghi di vita, il peso di quel dolore anonimo che ti preme sul petto e rimane incomunicabile, la puzza del tuo alito a digiuno, la forfora nei tuoi capelli incollati alla testa, le rughe sporche ancora di sugo, gli occhi spenti e il cellulare nelle mani acceso, il timbro della tua voce che ha pianto, ha riso, ha cantato, ha chiesto aiuto, le tue scarpe consunte, rubate, comprate, prestate, perse che indossi ai piedi, il tuo giaccone sporco senza bottoni, chiuso fino al collo, dimenticato, messo sotto il braccio, le tue mani di carne ossa e legamenti che si stringono bianche, che diventano un pugno porpora, una carezza tenera, un arrivederci, un nascondiglio.
Che ne ho fatto di te? Stai seduti, aspetti. Che ne ho fatto della tua esistenza in movimento, che ne ho fatto della tua follia sgangherata, che ne ho fatto dei tuoi sogni dimenticati, deturpati, violentati, troppo fragili per un mondo di cemento? Che ne ho fatto delle tue lacrime versate all’angolo di un centro commerciale luccicante di provincia, delle tue calde guance rosse dopo un altro schiaffo ricevuto, delle tue mani fredde tese con le unghie lunghe e ingiallite dal fumo? Che ne ho fatto dello schifo che mi fai lì immobile ad aspettare, che cosa? Che cosa aspetti? Chi aspetti? Perché non ti alzi, perché continui a stare in silenzio a non urlare, a non prendermi il camice a spogliarmi del potere, a strapparmi la corona di testa, a prendertela tu, a mettertela in testa, a fare festa perché sei di nuovo libero, libero di essere come sei, ad ubriacarti fradicio con la musica nella cassa che suona per la notte e per il giorno, per la luna che brilla in cielo solo per te?
Che ne ho fatto della mia paura fottuta della tua follia? Della mia, della mia infanzia, della mia storia.
Le origini sono quasi sempre infami. Come ho fatto a dimenticarle e poi a dimenticarmi e poi a dimenticarti?
Ero io ieri con l’elettroshock in mano a fermarti il capo e a dirti che non avresti sentito nulla, ero io a chiedere agli infermieri di legarti mani e piedi al letto perché il reparto doveva stare tranquillo e noi del personale dovevamo riposare, ero io a chiamarti alienato, pazzo, matto, fuori di testa, fuori come un balcone, inutile, scarto, merda, vergognoso essere immondo da spazzare via dalla faccia della terra perché eri pericoloso perché eri di scandalo. Perché non riesco a ricordare chiaramente quando ti tenevo chiuso in una stanza di Ospedale Psichiatrico accatastato come in un deposito roba vecchia di un fabbro di quartiere insieme ad altri come te, che facevo io allora? Interdetto, senza più i diritti degli altri, dei sani, dei normali, senza la possibilità di prendere un caffè al bar e dire “senza zucchero grazie e acqua liscia”, che facevo con la mia vita di allora? E ancora prima quando ti tenevo legato con le catene in enormi casermoni riciclati dai lazzaretti della tubercolosi insieme ai froci, ai criminali, ai negri, ai minorati di mente, alle puttane, come facevo a guardarti negli occhi? Che cosa vedevano i miei occhi quando guardavo i tuoi? E i tuoi? Come erano fatti allora i miei occhi? Come ho fatto a dimenticarlo?
Come respiravo, con il naso o con la bocca? Come era il ritmo del mio cuore, che pantaloni indossavo quando negli Opg, nelle Rems, nelle residenze sanitare per gli anziani, nelle comunità terapeutiche per tossicodipendenti, nei centri per i disturbi del neurosviluppo, ti lasciavo lì senza la possibilità di un incontro, senza “come stai”, senza potere, dignità, riconoscimento. Quando un vecchio è ormai un vecchio, un handicappato è così per sempre, un tossico se l’è cercata lui, un autistico purtroppo non c’è più niente da fare. Parlavo con la mamma, la compagna, i figli che non avresti mai avuto? Parlavo con i tuoi futuri abortiti, con le tue esistenze monche come fiumi che non scendono a mare e si disperdono in un pantano?
O rimanevo tra me e me? A pensare a che cosa poi?
Dove andavo a nascondermi l’anima?
Ma perché avrei dovuto fare qualcosa io? Io con la mia paura di sbagliare, di essere diverso, alieno, isolato, abbandonato, trascurato, non ascoltato, non visto? Io?
Si era sempre fatto così, tutti facevano cosi, qui si fa così che c’entravo io? Perché parlare, sognare, proporre alternative, perché provarci? Perché sentirmi in colpa, vergognarmi, provare ribrezzo, dissentire se gli altri comunque avrebbero continuato a farlo, se gli altri comunque avrebbero continuato a girare lo sguardo dall’altra parte, a tapparsi il naso, ad andare alle feste con il sorriso prestampato sul volto, a riempirsi le mani di giocattoli inutili per poi dire di non avere più spazio per stringere altre mani, di non avere più tempo per interessarsi, per impegnarsi, per promettersi, per progettare? Ma che ne potevo sapere io? Ero poi così diverso? Perché mi riguardava? Perché mi riguardavi?
Ora tu mi guardi stranito, ti sembra di capire qualcosa, che cosa mi sta succedendo? Ti ho raggiunto in sala d’attesa, ora sei in piedi davanti a me, sento il tuo fiato che mi arriva sulle labbra, sento la tua mano che stringe la mia senza più forza ormai, vedo che i nostri piedi si orientano secondo campi magnetici nuovi, secondo altri nord che ancora ci rimangono sconosciuti.
Sei davanti a me, sono davanti a te con i miei occhi lucidi, forse ho pianto nel frattempo, forse mi hai dato proprio tu questo fazzoletto che ora tengo umido nel taschino del camice.
C’è un silenzio profondo, enorme.
Ti abbraccio forte, ti mi stringi le mani dietro la schiena.
Ti sussurro all’orecchio, “perdonami”.
Mi rispondi timido singhiozzando, “grazie”.
Con questo articolo di Salvatore Marzolo, diamo avvio al tentativo di riproporre la piazza del Forum, così come avevamo desiderato, capace ora di accogliere i cambiamenti, nel bene e nel male, che sono avvenuti in questi venti anni dalla fondazione. La pagina del Forum e la piazza non per caso cominciano con lo scritto di Salvatore. La speranza è, e ci impegneremo perché accada, che studenti, specializzandi, giovani operatori “di ogni ordine e grado”, possano riabitare questo luogo.
fonte: FSM