Carcere. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria elabora una circolare per ridisegnare il trattamento penitenziario nel circuito di media sicurezza, il quale è il più grande contenitore dei 54 mila detenuti presenti nelle carceri italiane
In questi giorni sono accaduti tre fatti che hanno a che vedere con la questione carceraria. Non vanno tutti nella stessa direzione. Primo fatto: la Ministra della Giustizia Marta Cartabia ha nominato una Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario, affidandone la presidenza al prof. Marco Ruotolo, che molti anni e impegno ha speso sul tema della dignità umana e dei diritti fondamentali dei detenuti. Si esplicita nel decreto di nomina che la Commissione avrà il compito di individuare “possibili interventi concreti per migliorare la qualità della vita delle persone recluse e di coloro che operano all’interno degli istituti penitenziari”.
Dunque l’innovazione richiesta è funzionale ad aumentare la qualità della vita negli istituti di pena. È questo un fatto indubbiamente positivo. Secondo fatto: arriva nelle sale il film Ariaferma di Leonardo Di Costanzo, meravigliosamente interpretato da Toni Servillo, Silvio Orlando e Salvatore Striano.
Il film, presentato in anteprima nel carcere romano di Rebibbia, con equilibrio e delicatezza non comuni, ridefinisce in termini antropologici la questione carceraria. Il regista ci porta in una galera come tante e pian piano ne decostruisce tutti gli stereotipi a partire da quel muro, apparentemente invalicabile, che dividerebbe custodi e custoditi. Senza scandalo e senza pietismo il film spiega che detenuti e agenti di Polizia Penitenziaria sono parti di una stessa umanità. Anche questo secondo fatto è positivo, segno di un movimento culturale che non si accontenta di ricette interpretative banali per raccontare un mondo complesso e innaturale quale è il carcere.
Terzo fatto: il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria elabora una circolare per ridisegnare il trattamento penitenziario nel circuito di media sicurezza, il quale è il più grande contenitore dei 54 mila detenuti presenti nelle carceri italiane. Se si escludono le poche centinaia di persone recluse in sezioni a custodia attenuata (sottoposte a regime aperto) e le svariate migliaia ristrette nelle sezioni di alta sicurezza (sottoposte a regime chiuso), possiamo a spanne calcolare in circa 35 mila i detenuti interessati ai contenuti della circolare. Essa introduce la distinzione tra sezioni ordinarie e sezioni a trattamento avanzato.
Le prime sono rivolte a coloro i quali sono ritenuti inidonei a programmi di trattamento avanzato. Per costoro non si applicherebbe più la sorveglianza dinamica, introdotta all’indomani della sentenza Torreggiani della Corte di Strasburgo sui diritti umani che nel 2013 condannava l’Italia per trattamenti inumani e degradanti.
Viene riproposta una modalità chiusa di reclusione. Aldilà delle otto ore di permanenza fuori dalla cella per le consuete ore d‘aria o per frequentare le attività organizzate, il detenuto deve restare chiuso nella sua camera di pernottamento, altrimenti detta cella. È questo un passo indietro rispetto al modello attuale.
A ciò si accompagna una richiesta di dar vita capillarmente a sezioni (cosiddette ex art.32) destinate a detenuti che hanno un comportamento problematico e che quindi hanno un regime ancora più chiuso. La permanenza in queste sezioni può durare fino a sei mesi, finanche prorogabili. La circolare, pur richiamando la necessità di incrementare la presenza di figure multidisciplinari, non fa alcun riferimento all’assunzione di educatori, assistenti sociali, psicologi, medici, mediatori.
Agli educatori non viene data una primazia nelle scelte pedagogiche, come sarebbe giusto fare. Per un detenuto finire in una sezione o in un’altra non è irrilevante. La collocazione in una di queste due sezioni è una decisione che incide notevolmente sui suoi diritti, sulla sua qualità della vita e sulle sue prospettive di reinserimento sociale, senza che egli abbia possibilità di rivolgersi a un magistrato di sorveglianza. Meglio sarebbe stato affidare una decisione del genere a parametri più certi di tipo legislativo.
Il rischio grosso che si corre è duplice: da un lato il declino di queste sezioni ordinarie verso un modello di tipo prevalentemente disciplinare, dall’altro la creazione di ghetti reclusivi per i cosiddetti detenuti difficili, alimentando conflitti e violenza. Dunque il terzo fatto va in direzione contraria ai primi due e meriterebbe una riconsiderazione.