In un mondo in cui le disuguaglianze sono grandi e sono state accentuate dalla pandemia indebolendo la coesione sociale e il rapporto tra politica e società, in cui si pongono con urgenza questioni ambientali non rimandabili, in cui sono mutati gli equilibri politici sul piano internazionale, è davvero possibile pensare di continuare ad adottare un modello di sviluppo uguale a quello degli ultimi decenni?
Quando si parla delle conseguenze economiche della crisi sanitaria prevale la convinzione, implicita, che una volta ripristinate le condizioni pre-Covid, si potrà riprendere un percorso di sviluppo non diverso da quello sperimentato negli ultimi decenni. I cambiamenti nel contesto economico e politico, in sostanza, sono visti come frutto di un evento inatteso e quindi destinati a non durare nel tempo.
Una convinzione non nuova tra gli economisti che ha le sue radici 1. nel fatto che molti, all’interno della disciplina, danno per scontata l’esistenza di vere e proprie leggi economiche che, come tali, non possono essere influenzate dalle circostanze storiche; 2. nella relativa stabilità degli ultimi decenni sia dal punto di vista politico e del contesto istituzionale (con le sue le regole formali ed informali).
Il contesto cambia i processi economici
Una convinzione messa in discussione da Schumpeter che nel suo libro Storia dell’analisi economica ci ha ricordato l’importanza delle condizioni di contesto nei processi economici e quindi la necessità di incorporare nelle analisi l’evoluzione delle condizioni politiche e istituzionali (nazionali e internazionali) e il modo in cui si sviluppa il dibattito economico. L’obiettivo di questo studioso era quello superare ogni determinismo e dogmatismo nella lettura di processi che sono profondamente immersi nella storia, esattamente come la riflessione scientifica che vedeva fortemente influenzata dagli eventi storici, sia pure solo nel breve periodo e che considerava essa stessa una parte qualificante dell’ambiente economico. Per fare ciò che suggeriva Schumpeter bisogna tuttavia abbandonare un’idea di economia dai confini delimitati e prendere in considerazione processi evolutivi complessi nei quali il ruolo della politica, a vari livelli, è centrale e analizzare i cambiamenti da tre punti di vista. Il primo è quello dei valori presi a riferimento per comprendere la scelta degli obiettivi. Il secondo è quello delle regole che possono essere viste come i pilastri di un progetto attraverso il quale il paese dominante, o meglio le classi dominanti di quel paese tendono ad imporre un modo di funzionare del sistema economico coerente con i loro interessi di lungo periodo. Il terzo punto di vista è quello della cultura economica vista come lo strumento attraverso il quale un determinato progetto politico, con le sue regole e valori, si racconta e, nello stesso tempo si giustifica. Cosa che spiega perché in genere la cultura è l’ultimo elemento di contesto a cambiare.
La pandemia spariglia le carte
L’esplodere della questione sanitaria ha reso evidenti momenti di discontinuità da tutti e tre i punti di vista. Sono cambiati in primo luogo i valori sia come effetto di un attrito crescente tra i valori del mercato e quelli della democrazia, sia, e soprattutto perché la crisi ha fatto emergere due valori come prioritari, la tutela della vita e dell’ambiente. Due valori che ridisegnano necessariamente il rapporto tra pubblico e privato, cambiando l’agenda della politica. In secondo luogo ci sono stati cambiamenti nelle regole. Già nel 2012 c’erano stati segnali di cambiamento di ruolo delle banche centrali con il “whatever it takes” di Draghi. Ma la dichiarazione della Fed di non considerare più prioritario l’obiettivo del controllo dell’inflazione costituisce una discontinuità molto significativa che va ad aggiungersi ai tentativi di penalizzare le imprese che delocalizzano ed al fatto che è diventato evidente che l’idea di contenere la spesa pubblica non solo era inadeguata, ma era addirittura controproducente rispetto ai problemi con cui ci si stava misurando.
Il fatto che questi cambiamenti siano stati raccontati come temporanei può non sorprendere perché è evidente che se non lo si fosse fatto l’intero immaginario costruito sugli attuali obiettivi e regole ne sarebbe risultato indebolito. Più che guardare a quello che si dice, se vogliamo comprendere il senso degli scenari futuri, il problema che dobbiamo porci è quello di comprendere se le cosiddette logiche dell’economia possano realmente tornare a prevalere nel momento in cui, finita l’emergenza, si porrà il problema di definire le norme di buon governo nel medio lungo periodo. Un tema che va affrontato ricordandosi che la storia ci ha insegnato che ogni sistema di regole tende a deteriorarsi. Quello che si vuol dire è che anche se è vero che il progetto nato negli anni ottanta abbia a lungo funzionato permettendo agli Stati Uniti ed alla stessa Gran Bretagna di recuperare una posizione centrale sul piano internazionale, non è detto affatto che quelle regole possano continuare a svolgere il loro ruolo in un mondo in cui le condizioni politiche sono cambiate. In un mondo in cui c’è stata un’accentuazione rapida e significativa delle disuguaglianze nel livello dei redditi e di ricchezza all’interno dei paesi che sta incidendo profondamente sulla coesione sociale e indebolendo il rapporto tra la politica e la società. In un mondo in cui è cresciuta l’urgenza con cui si pongono le questioni ambientali e in cui soprattutto sono mutati gli equilibri politici sul piano internazionale. Come alla fine dell’ottocento, le regole pensate per consolidare il predominio dell’impero inglese, il cosiddetto Gold Standard, non avevano impedito la nascita della potenza economica tedesca e statunitense, così le regole Reagan-Thatcher non stanno impedendo l’emergere di un nuovo avversario strategico per gli Usa, almeno sul piano strettamente economico e cioè la Cina.
Cosa ci attende?
Il fatto che ci si avvii probabilmente verso una situazione non troppo dissimile da quella del dopoguerra può farci pensare ad un cambiamento di strategie delle classi dirigenti dei paesi occidentali, ad una spinta verso una politica che ripensi e affronti in maniera consapevole la questione della divisione internazionale del lavoro. Una politica più attenta alla coesione sociale e che tenda a ridimensionare le divaricazioni interne alla società e tra i paesi amici. Ma poiché in questi processi non c’è nulla di scontato e il rapporto tra la dimensione politica e quella economica e tra dimensione pubblica e privata (cioè i grandi gruppi economici e finanziari) è profondamente cambiato a favore della seconda, occorre rifuggire da ogni determinismo. Ogni tentativo di riportare al centro le necessità della politica, anche quella internazionale, troverà una forte resistenza da parte degli interessi che si sono andati aggregando in questi decenni. Negli anni trenta Roosevelt rappresentò una politica che voleva ridimensionare il potere dei grandi gruppi per poterli governare e per non essere governato dagli stessi. Quale sarà il compromesso che si raggiungerà oggi è cosa difficile da prevedere, anche perché non sembra emergere alcuna personalità politica capace di ripercorrere il progetto di Roosevelt. Ma è difficile pensare che il mondo pre-crisi possa sopravvivere alle nuove sfide con i valori, la cultura e forse anche le regole che abbiamo conosciuto.
fonte: Forum Disuguaglianze Diversità
L’Autore Roberto Schiattarella è stato professore di Politica economica. Laureatosi in economia, dopo aver completato i suoi studi presso l’università di Cambridge, è stato assistente del prof. Federico Caffè …leggi tutto