Le elezioni ci hanno consegnato due possibili candidati alla presidenza del Consiglio: Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Ma finora entrambi hanno lasciato irrisolta una questione centrale: il ruolo dell’Italia in Europa e nella moneta unica.
Di Maio e Salvini aspiranti premier
Le elezioni hanno portato al centro-destra la maggioranza relativa dei seggi tra le coalizioni: 265 seggi su 630, pari al 42 per cento del totale alla Camera, e 137 seggi su 315, il 43,5 per cento del totale al Senato. Tra i partiti, la maggioranza relativa dei seggi è andata al Movimento 5 stelle, con 227 seggi alla Camera (il 36 per cento del totale) e 112 seggi al Senato (il 36 per cento del totale). È dunque probabile che il presidente Mattarella attribuisca un incarico – esplorativo o pieno – per la formazione del governo a un rappresentante di questi gruppi politici, presumibilmente a Matteo Salvini (il leader della Lega, il partito con la maggioranza dei consensi nel centro-destra) o a Luigi Di Maio.
Leggendone i programmi, ci si accorge che, alla fine di una campagna elettorale piena di proposte molto ambiziose o inverosimili, i partiti hanno in realtà lasciato irrisolte alcune domande fondamentali. Una di queste riguarda il ruolo dell’Italia in Europa e nella moneta unica. Vale la pena di tornarci sopra.
L’euro, una valuta cattiva per Salvini
Nella sua prima conferenza stampa dopo le elezioni, Salvini ha parlato dell’euro come di una “valuta cattiva”. Ora, nessuno può negare che l’architettura istituzionale dell’euro – un esperimento privo di precedenti – debba ancora essere completata. Ma l’euro c’è, è oggi in buona salute e, anzi, i lavori in corso sono in vista del suo consolidamento. In Europa si parla (e ci si divide) su temi come l’assicurazione europea sui depositi, le regole di vigilanza bancaria e l’introduzione di vincoli alla quantità di titoli pubblici detenuta nei bilanci bancari. Si ragiona cioè in modo operativo su come completare l’unione bancaria (ad esempio, ne ha discusso su questo sito Angelo Baglioni). In modo meno operativo, si parla anche dell’adozione di un bilancio comune a sostegno dell’euro – un meccanismo che svolga più pienamente la funzione assicurativa giocata da un governo centrale in una nazione – o almeno di uno schema europeo di indennità di disoccupazione (ha recentemente ripreso l’idea Andrea Boitani) per dare ai disoccupati europei un supporto di reddito svincolato dalle condizioni del loro paese di provenienza.
Sono tutte misure di perfezionamento dell’architettura dell’euro, visto come una valuta che è qui per rimanere: semplificando, chi prova a migliorarne il funzionamento pensa all’euro come a una valuta “buona”, non a una valuta cattiva di cui sbarazzarsi.
Se dunque l’Europa e i paesi europei diversi dall’Italia si stanno attrezzando per continuare a convivere nell’euro, sarebbe utile avere qualche chiarimento al riguardo dagli aspiranti premier italiani.
Ci sono due possibilità. La prima è che anche l’Italia attraverso il suo prossimo governo partecipi alla predisposizione delle nuove regole, cercando di influire sul risultato, ma sapendo fin dall’inizio che gli esiti potrebbero non essere del tutto favorevoli ai nostri interessi nazionali. Nei negoziati si porta a casa qualcosa ma non tutto. Oppure si può concludere che, essendo l’euro una valuta cattiva e constatata l’impossibilità di ottenere la “revisione dei trattati europei” auspicata al punto 3 nel cosiddetto “programma del centro-destra”, l’Italia farà i preparativi per andarsene dalla moneta unica. Sapendo che “andarsene” vuol dire andarsene da soli, con le conseguenze e le difficoltà di attuazione che ciò comporta, sia nella transizione che a regime.
Anche Di Maio è ambiguo sull’euro
Da parte sua, il M5s sembra aver abbandonato la prospettiva dell’uscita dall’euro, ma in passato le dichiarazioni del candidato presidente del Consiglio Luigi Di Maio erano state ondivaghe sul punto. Di recente, nella trasmissione Porta a Porta, la conclusione è stata che “Ora non è più il momento di uscire dall’euro”. Intendendo che, finiti i tempi dell’asse privilegiato franco-tedesco, in Europa si sarebbero aperti margini per una gestione più collegiale e quindi anche per una revisione dei trattati europei come il Fiscal Compact e – chissà – gli altri trattati fondativi della moneta unica. Il che però lascia aperta la stessa questione che si pone per la Lega: e se l’asse franco-tedesco si rinsalda (qualcosa di più di una congettura accademica) e l’Europa risponde picche alle richieste di revisione dei trattati, cosa si fa? Si esce in solitaria? Se sì, come?
A ben vedere, dunque, ambedue gli aspiranti presidenti del Consiglio hanno finora lasciato irrisolta – con un po’ di voluta ambiguità strategica – una questione di grande importanza. In fondo, la vera domanda è se su questi temi ci sia spazio per le ambiguità, soprattutto per un paese con il 133 per cento di rapporto debito-Pil. Un’alternativa semplice all’ambiguità c’è: il governo italiano potrebbe dichiarare che, pur concorrendo alla discussione per cambiarle, si impegna a rispettare le regole esistenti, in particolare quelle relative agli obblighi derivanti dalla permanenza nella moneta unica, a cominciare dal Fiscal Compact. Ma non è quello che Di Maio e Salvini hanno promesso ai loro elettori in campagna elettorale.
Fonte: http://www.lavoce.info/archives/51724/domanda-sulleuropa-ai-vincitori-delle-elezioni/