Quando si parla di barriere in relazione alla disabilità, vengono subito in mente quelle architettoniche, gli edifici e i marciapiedi non accessibili, i mezzi pubblici senza pedana, oppure le spiagge o i luoghi di montagna non opportunamente attrezzati per accogliere e rendere agevole il soggiorno alle persone con disabilità.
Senza dubbio questo è un aspetto importante del “problema barriere” e bisogna dire che in Italia tanto è stato fatto, ma tanto resta ancora da fare: le nostre città, infatti, non sono certo a misura di persona con disabilità e/o anziana.
E tuttavia, un aspetto altrettanto importante – o forse dovremmo definirlo come il presupposto all’eliminazione di tutti gli altri tipi di barriere – riguarda le barriere culturali, ossia il modo in cui viene considerata la persona con disabilità dalla società. Ciò che a mio parere è oggi ancora una grossa barriera è l’incapacità di considerare la persona con disabilità come effettivo membro della società, con diritti e doveri pari agli altri.
Si parla molto di autodeterminazione della persona con disabilità, del diritto di fare in autonomia le scelte riguardanti la propria vita: dove e con chi abitare, come gestire i propri beni, come impiegare il proprio tempo. Si fa però ancora molta fatica a pensare la persona con disabilità come risorsa per la società, come qualcuno che possa mettere a disposizione degli altri le competenze e le abilità acquisite e magari vedere anche riconosciuta e remunerata la propria professionalità.
L’istruzione e la formazione non è più preclusa ai soggetti con disabilità, chi ha le capacità e la volontà può frequentare l’università: gli atenei sono abbastanza attrezzati per accogliere gli studenti con disabilità e i docenti disponibili a venire incontro alle loro esigenze. Il problema si pone però nel momento in cui si deve mettere in gioco la professionalità acquisita, qualunque essa sia, ovvero entrare nel mondo del lavoro e in definitiva nel mondo degli adulti.
Mi duole dirlo, ma spesso è come se ciò che si è conseguito in termini di formazione e di capacità professionali non fosse considerato alla pari di quello degli altri: «si, va beh sei laureato, però…».
Nessuno vuole negare le oggettive difficoltà che una persona con disabilità può avere nello svolgimento di un lavoro, di un’attività o di una professione; chi scrive, ad esempio, ha problemi di linguaggio e non potrebbe mai fare un lavoro a contatto col pubblico. Secondo me, tuttavia, la questione è che troppo spesso, invece di trovare delle soluzioni, si preferisce bypassare il problema, dicendo che in fondo la persona con disabilità ha la pensione d’invalidità e l’assegno di accompagnamento che le permettono di vivere e quindi può anche non lavorare; tutt’al più deve occupare il tempo, cioè tirare sera!
A parte il fatto che basterebbe fare due conti per rendersi conto che la pensione d’invalidità e l’assegno di accompagnamento non bastano per vivere, ma qui siamo di fronte a un problema di barriere culturali, per cui in fondo ciò che non viene riconosciuta è l’adultità della persona con disabilità, adultità che normalmente si esplica anche attraverso l’acquisizione di un ruolo sociale.
Emblematico di ciò è il fatto che spesso le persone con disabilità vengano chiamate “ragazzi” quale che sia la loro età. Riconoscere l’adultità di una persona, qualunque sia la sua condizione di vita, significa darle dignità, ma la dignità passa anche attraverso l’acquisizione di un ruolo sociale, di una funzione all’interno della società, per cui la persona diventa risorsa per sé e per gli altri.
È un percorso ancora lungo, non siamo però all’anno zero: io stessa faccio parte della rete Immaginabili Risorse, un network che comprende numerose realtà del Centro-Nord Italia che si occupano di disabilità e che dal 2011 promuove riflessioni e azioni volte a favorire una reale inclusione sociale delle persone con disabilità, generando valore sociale per il territorio in cui vengono attuate.
L’esperienza maturata dalla rete in questi anni ci dice che un cambiamento di rotta è possibile e in parte sta già avvenendo; certo, le spinte contrarie ci sono – mantenere lo status quo è sempre più rassicurante ed economico –, ma si tratta di contrastarle attraverso l’implementazione di buone pratiche che dimostrino con i fatti come includere, permettere anche a chi ha una disabilità di dare il proprio contributo alla società in cui vive è più vantaggioso per tutti.