Salute globale. Coloniale. di Beatrice Sgorbissa

La nascita della salute globale è connessa ad un contesto storico ed economico coloniale, contraddistinto da oppressione e in cui ha messo radici il fenomeno del suprematismo.

Che significato assume, nella nostra contemporaneità, il termine “globale” per descrivere la salute? L’aggettivo, a pensarci bene, risulta quasi anacronistico, soprattutto alla luce della pandemia da Covid19 e dei suoi effetti sulla popolazione e sui sistemi di tutto il mondo. Covid-19 ha fatto emergere infatti con estrema chiarezza come le questioni di salute non siano più ascrivibili a singole nazioni o continenti. Viviamo in un’era frenetica: lo spostamento di persone e merci è continuo e massivo e i nuovi mezzi di comunicazioni ci permettono di essere connessi in tempo reale sempre e dovunque, accorciando le distanze. “Globale” definisce dunque una salute con una prospettiva ampia che cerca di comprendere ed armonizzare tutto il sistema “mondo”? [1]
Sembra che, la salute globale sia definita piuttosto come l’insieme di conoscenze e programmi sanitari che organizzazioni, ricercatori e medici dei paesi ricchi attuano nei paesi in via di sviluppo.
Il termine “Globale” sottindente forse qualcos’altro?

Per comprendere meglio di cosa stiamo parlando, è necessario andare indietro alle origini della Global Health, in particolare alle sue discipline antenate, la Medicina Tropicale/Coloniale/Missionaria, sviluppate ai tempi del colonialismo Occidentale tra la seconda metà dell’Ottocento e la fine della Guerra Mondiale. Storicamente, la Medicina Tropicale acquisì a quell’epoca una funzione di controllo sulla popolazione e servì a promuovere la salute di coloni e colonizzati per facilitare il processo di sfruttamento delle risorse e delle terre. Lo sfruttamento e le esportazioni delle risorse erano legittimate per mezzo di discorsi, leggi e sistemi che esasperavano le differenze biologiche tra bianchi e popolazioni locali. La nascita della salute globale dunque è intrinsecamente connessa ad un contesto storico ed economico coloniale, contraddistinto da oppressione e in cui ha messo radici il fenomeno del suprematismo.[2,3,4]

Il tema del suprematismo esplode nuovamente nel dibattito pubblico durante la primavera dell’anno scorso. È il 13 Maggio del 2020 e in America viene ucciso George Floyd, cittadino afro-discendente: un’ondata di proteste, guidato dal movimento Black Lives Matter, scuote il Paese e il mondo intero. Da quel momento, il tema della decolonizzazione travolge moltissimi ambiti, compreso quello della Salute Globale. “La violenza strutturale che ha causato la sua morte ha radici storiche che si manifestano nelle diseguaglianze del nostro tempo” (Emilie Koum Besson[5]). È grazie ad alcuni studenti di scuole di Global Health che le rivendicazioni del movimento Black Lives Matter si insinuano all’interno delle accademie dando il via ad un’intensa produzione di articoli e dibattiti (più di 50 articoli tra nell’anno 2020).[6] Gli studenti sostengono con forza che, anche per la salute globale, è arrivato il momento di adottare un approccio multidimensionale e decolonizzante, sia sul piano individuale che istituzionale, che affronti una volta per tutte la complessa interdipendenza tra la storia imperialista occidentale e la salute, gli sviluppi economici, la politica e i diritti umani.[7] Inizia così un movimento che cerca di contrastare un sistema radicato di dominazione e potere e che opera con l’obiettivo di migliorare la salute della popolazione di tutti i Paesi, inclusi quelli precedentemente colonizzati e saccheggiati.[6]

 “[…] La decolonizzazione non passa mai inosservata, perché influenza gli individui e li modifica fondamentalmente. Trasforma gli spettatori schiacciati dalla loro inessenzialità in attori privilegiati, con il bagliore grandioso dei riflettori della storia su di loro. Porta all’esistenza un ritmo naturale, introdotto dall’uomo nuovo, e con esso un nuovo linguaggio e una nuova umanità. Decolonizzare è la vera e propria creazione di un uomo nuovo. La “cosa” che è stata colonizzata diventa uomo attraverso lo stesso processo di auto-liberazione. Nella decolonizzazione, c’è quindi la necessità di una completa rimessa in discussione della situazione coloniale. Se vogliamo descriverla con precisione, potremmo trovarla nelle note parole: “gli ultimi saranno i primi e i primi gli ultimi”. Decolonizzare è la messa in pratica di questa frase” (Frantz Fanon, psichiatra, filosofo e politico del movimento anticoloniale[26]).

Ma suprematismo e whiteness come si inseriscono all’interno della Global Health? Il rapporto esistente tra High Income Countries (HICs) e Low and Middle Income Countries (LMICs) e le modalità con cui le istituzioni di salute globale operano offrono degli ottimi esempi: la quasi totalità delle agenzie e accademie che si occupano di salute globale infatti sono state fondate nei Paesi ad alto reddito e l’85% delle loro sedi si trova alle stesse latitudini.[8] La leadership delle istituzioni della salute globale è rappresentata nella maggior parte dei casi da uomini bianchi nati e formati nei paesi ad alto reddito, decisori di statements e agende che plasmano la salute globale sulla base di conoscenze e modelli del proprio gruppo dominante.[4,5] Il suprematismo si svela nell’insofferenza e nel pregiudizio per le conoscenze indigene, considerate nè all’altezza nè autorevoli, nella riluttanza ad imparare dai luoghi e dalle persone che si discostano dai nostri standard e che vengono quindi etichettate come inferiori. Travestito, talvolta, da white saviourism.[4,9,10] Un suprematismo che monopolizza anche l’insieme delle conoscenze, dopo averle sistematizzate in modalità esclusiva, fagocitando con prevaricazione ciò che si discosta dagli standard stabiliti, a tal punto da produrre quello che è stato definito “epistemicidio”.[11]

A tal proposito, in ambito accademico scientifico si possono trovare meccanismi molto significativi che evidenziano l’impianto colonialista della salute globale. La maggior parte delle scuole di Global Health si trova nei paesi ad alto reddito. Non solo: l’accesso a questo tipo di formazione è profondamente legato allo status socio-economico. Infatti, si tratta di scuole notoriamente prestigiose, con delle rette vertiginose, accessibili soltanto ad una ristretta fetta di persone e solo pochissime prevedono costi agevolati per studenti stranieri o provenienti dai paesi in via di sviluppo. L’effetto è quello per cui, nel Nord del mondo, prestigiose scuole istruiscono gruppi di studenti altamente selezionati per diventare esperti di malattie e problemi presenti nel Sud del mondo, con scarsa attitudine ad allargare la formazione a studenti appartenenti ad altri gruppi per livello socio-economico e per provenienza. In realtà, l’esclusione riguarda anche la maggior parte dei professori provenienti dai LMICs con esperienze dirette e anni di attività sul campo. Anche gli studenti provenienti dai LMICs solitamente subiscono una selezione simile: solo coloro che fanno già parte di un gruppo socio-economico privilegiato può permettersi di sostenere le spese di una formazione all’estero (paradossalmente per acquisire nozioni dei loro stessi paesi di provenienza).[12]

Dal punto di vista della ricerca scientifica, ancora una volta, la maggior parte delle riviste sulla Salute Globale ha sede nel Nord del Mondo e gli autori sono soprattutto bianchi affiliati alle accademie occidentali di riferimento. Autori provenienti dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale costituiscono l’80% degli articoli pubblicati su riviste di malattie infettive in tutto il mondo[13] mentre il continente africano produce solo circa l’1% delle pubblicazioni di ricerca del mondo, quasi soltanto da Sud Africa e Nigeria.[14]  Strettamente correlato è anche il problema dell’asimmetria nei partneraniati accademici tra Nord e Sud [15,17,18]: quasi sempre gli studi vengono progettati e finanziati da centri di salute globale con sede in Occidente, i ricercatori mandati sul campo sono per lo più bianchi e il coinvolgimento di ricercatori del luogo o dell’Università di riferimento nei LMICs è soltanto parziale. Questo lo si può dedurre ad esempio dal numero di persone BIPOC (black, indigenous and people of color) che figurano come primo nome nelle ricerche scientifiche.[19,20,21]  Una revisione di tutti gli articoli di letteratura svolti in tutta l’Africa dal 1980 al 2016 ha mostrato che solo il 49,8% aveva un primo autore africano.[22]
I donatori definiscono le priorità di ricerca, come e dove vengono pubblicati i risultati, spesso in riviste non disponibili nel paese ospitante LMIC, limitando così l’impatto locale. Allo stesso modo, i fattori di impatto (una misura dei tassi di citazione degli articoli) avvantaggiano i ricercatori degli HICs perché la maggior parte delle riviste ad alto impatto hanno sede nei HICs e i ricercatori preferiscono citare e pubblicare in tali riviste.[22,23,24]   The Lancet in un articolo molto critico dal titolo “Closing the doors on parachutes and parasite” scrive in merito: A nessuno piace il ricercatore “paracadutato”: quello che si lancia in un paese, utilizza le infrastrutture locali, il personale e i pazienti, e poi torna a casa e scrive un articolo accademico per una rivista prestigiosa”.[25]

Anche il monopolio della lingua inglese come unica lingua di comunicazione, espressione e divulgazione rappresenta un nodo importante nell’impianto colonialista della GH. I rischi dell’utilizzo esclusivo dell’inglese sono innanzitutto di perdere il valore e il significato della lingua locale per descrivere fenomeni riferiti a un preciso contesto (che non sempre trovano nella lingua straniera coloniale una vera e propria traduzione); ma anche di rendere l’inglese un rigido requisito di autorevolezza per farsi spazio nelle riviste ad alto impatto. [26,5,24]

Alla luce di quanto esposto, viene da chiedersi se “globale” non sia riferito a tutta questa struttura, un aggettivo che sottointende, in realtà, l’asimmetria di potere tra HICs e LMICs.  Forse è giunto il momento di fare un passo indietro e di affrontare verità scomode, schiette e spesso riluttanti da interiorizzare, partendo dal riconoscere la storia, indagare i meccanismi e gli squilibri, elaborarli, smantellarli.

Il proseguimento di questo post – “Il futuro della salute globale” – sarà pubblicato il prossimo lunedì, 11 0ttobre.

Beatrice Sgorbissa, Specializzanda in Igiene e Medicina Preventiva – Università di Padova. Co-fondatrice di Strada SiCura.

Bibliografia

  1. Seye Abimbola. On the meaning of global health and the role of global health journals. International Health 201810(2):63–65 https://doi.org/10.1093/inthealth/ihy010
  2. Eichbaum QG, Adams LV, Evert J, Ho MJ, Semali IA, van Schalkwyk SC. Decolonizing Global Health Education: Rethinking Institutional Partnerships and Approaches. Acad Med 2021;96(3):329-335. doi: 10.1097/ACM.0000000000003473.
  3. Hirsch LA. Is it possible to decolonise global health institutions? Lancet. 2021;397(10270):189-190. doi: 10.1016/S0140-6736(20)32763-X. PMID: 33453772.
  4. Abimbola S, Pai M. Will global health survive its decolonisation? The Lancet 2020; 396(10263): 1627-1628
  5. Besson EK. Confronting whiteness and decolonising global health institutions. Lancet 2021;397(10292):2328-2329. doi: 10.1016/S0140-6736(21)01321-0. PMID: 34147146.
  6. Khan M, Abimbola S, Aloudat T, Capobianco E, Hawkes S, Rahman-Shepherd A. Decolonising global health in 2021: a roadmap to move from rhetoric to reform. BMJ Glob Health 2021;6(3):e005604. doi: 10.1136/bmjgh-2021-005604
  7. Büyüm AMKenney CKoris A, et al. Decolonising global health: if not now, when? 
  8. Global Health 50/50 Report: Gender equality: Flying blind in a time of crisis
  9. Felix Willuweit. De-constructing the ‘White Saviour Syndrome’: A Manifestation of Neo-Imperialism. E International Relations, Luglio 2020
  10. Daniel Reynolds. Racism Is a Health Crisis. Why Aren’t We Treating It Like One? Healthline, Giugno 2020
  11. Hall, B.L. and Tandon, R. Decolonization of knowledge, epistemicide, participatory research and higher education.
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  12. Svadzian AVasquez NAAbimbola S, et al. Global health degrees: at what cost? 
  13. Bliziotis, I.A., Paraschakis, K., Vergidis, P.I. et al. Worldwide trends in quantity and quality of published articles in the field of infectious diseases. BMC Infect Dis 2005;5, 16. https://doi.org/10.1186/1471-2334-5-16
  14. Goolam Mohamedbhai. Promoting Developmental Research: A Challenge for African Universities. Journal of Learning for Development , 1(2). Retrieved from https://jl4d.org/index.php/ejl4d/article/view/65
  15. Yarmoshuk AN, Cole DC, Mwangu M, et al. Reciprocity in international interuniversity global health partnerships. High Educ 79, 395–414 (2020). https://doi.org/10.1007/s10734-019-00416-1
  16. Oti SONcayiyana J. Decolonising global health: transnational research partnerships under the spotlight. 
  17. Boum II YBurns BFSiedner M, et alAdvancing equitable global health research partnerships in Africa. BMJ Global Health 
  18. Boum II YBurns BFSiedner M, et al. Academic promotion policies and equity in global health collaborations. The
    2018;392(10158):1607-1609.  doi: 10.1016/S0140-6736(18)32345-6.
  19. Matthew F. Chersich, Duane Blaauw, Mari Dumbaugh. Local and foreign authorship of maternal health interventional research in low- and middle-income countries: systematic mapping of publications 2000–2012 – Globalization and Health BMC 2016;12(1):35.
    doi: 10.1186/s12992-016-0172-x.
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  21. Helen Schneider, Nelisiwe Maleka. Patterns of authorship on community health workers in low-and-middle- income countries: an analysis of publications (2012–2016). BMJ Global Health 2018; 
  22. Rose Mbaye, Redeat Gebeyehu. Who is telling the story? A systematic review of authorship for infectious disease research conducted in Africa, 1980–2016. BMJ Global Health, Settembre 2019. http://dx.doi.org/10.1136/bmjgh-2019-001855
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  25. Closing the doors on parachutes and parasite. The Lancet, Luglio 2018. https://doi.org/10.1016/S2214-109X(18)30239-0
  26. F. Fanon. I dannati della terra. Einaudi editore, 1961.

fonte: saluteinternazionale.info

img copertina: alamy stock foto

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