Quelli che state per leggere sono stralci tratti dal 13esimo capitolo sulla guerra in Afghanistan, del libro di Alessandro De Pascale dal titolo “Guerra & Droga” (Castelvecchi 2017).
[…] 11 settembre 2001, giorno dell’attacco alle Torri Gemelle: gli Usa invadono l’Afghanistan per rovesciare i talebani che davano asilo ad Osama Bin Laden, ritenuto la mente di quegli attentati. È l’operazione Enduring Freedom alla quale, sotto la guida statunitense, partecipano Gran Bretagna, Italia, Francia, Germania, Canada, Australia e Polonia. La fase iniziale prevede una massiccia campagna di bombardamenti per poi, alla fine dell’anno, mantenere l’occupazione del Paese a sostegno di una nuova amministrazione ad interim. A guidarla dal 22 dicembre c’è Hamid Karzai, pashtun in rapporti con la Cia già dai tempi dell’invasione sovietica, già viceministro degli Esteri nell’esecutivo di Rabbani, dal 1997 fuggito esilio a Quetta (Pakistan) in seguito alla presa di Kabul da parte dei talebani.
[…] La missione Enduring Freedom degli 8 Paesi a guida statunitense si è disinteressata alla questione droga. Lo stesso ha fatto la successiva Isaf della Nato, attiva fino al 5 ottobre 2006 con 50 Paesi e 98.000 uomini, poi diventata dal 1 gennaio 2015 la Resolute Support: 39 nazioni partecipanti e 12.000 uomini. L’Alleanza Atlantica ha addirittura negato per anni l’appoggio a operazioni antidroga in Afghanistan […] Per l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush (2001-2009), la lotta al narcotraffico non è mai stata una priorità, nonostante si sia sempre sospettato che la droga potesse finanziare il terrorismo. «Per sconfiggere i talebani all’indomani dell’11 settembre la Cia ha mobilitato con successo ex signori della guerra da tempo attivi nel traffico di eroina, affinché conquistassero villaggi e città. In altre parole, l’Agenzia e i suoi alleati locali hanno creato le condizioni ideali per far cadere il divieto sull’oppio imposto dai talebani e rilanciare il traffico di droga. Solo poche settimane dopo la caduta dei talebani venne segnalato un boom di piantagioni di papavero nelle roccaforti dell’eroina di Helmand e Nangarhar», ha scritto lo storico statunitense Alfred McCoy, che si occupa di questo argomento fin dai tempi del Vietnam [1].
Tra questi anche l’Alleanza del Nord, fronte armato multietnico dominato dai tagiki del maresciallo Mohammed Qasim Fahim e dagli uzbechi del generale Abdul Rashid Dostum, signori della guerra e della droga che alla fine del 2001 sono diventati le truppe di terra afgane degli statunitensi. Era già avvenuto in Kosovo nel 1999, quando la Nato intervenne contro la Serbia e al fianco degli albanesi dell’Uck, fino al giorno prima considerata organizzazione paramilitare terrorista che si finanziava con droga, armi, prostituzione e traffico d’organi, anche in Afghanistan sembra che su questo si siano stati chiusi entrambi gli occhi. Una storia che, quindi, si ripete a migliaia di chilometri di distanza, laddove però quell’immenso business ha origine […] Nel 2001 il Pentagono aveva una lista di almeno 25 laboratori e magazzini di eroina in Afghanistan, ma si rifiutarono di bombardarli perché appartenevano ai nuovi amici della Cia, chiarendo subito ai britannici che la guerra al terrorismo non aveva nulla a che vedere con quella alla droga [2].
[…] Il ripristino dell’industria afghana dell’oppio è così servito a garantire la stabilità e la fedeltà di tutta la piramide del corrotto sistema di potere locale, dai capi tribali ai governatori, fino ai generali e ai ministri. Ma anche ad assicurare l’unica base di sussistenza della popolazione rurale afghana (il 75% della popolazione totale), diventando il pilastro di un sistema di welfare che ha evitato una ribellione di massa dei contadini afghani, altrimenti ridotti alla fame. Questi hanno del resto poche alternative: un chilo di grano viene loro pagato 50 centesimi, di cotone un euro e 30 centesimi, mentre con la stessa quantità di oppio rimediano oltre 60 euro [3].
Nel 2004, quando nasce la National Interdiction Unit (Niu), a causa dell’escalation insurrezionalista cui si somma la crescente instabilità, i vertici americani iniziano a proteggere di fatto i narcotrafficanti funzionali alla loro politica nel Paese. Primo fra tutti Ahmed Wali Karzai, fratello dell’ex presidente afghano Hamid, nonché principale barone dell’eroina, anch’egli ritenuto vicino alla Cia. Nel 2004 la polizia locale sequestrò vicino a Kandahar un’enorme cassa piena di eroina nascosta sul rimorchio di un trattore. Wali Karzai chiamò il comandante che aveva effettuato il ritrovamento, Habibullah Jan, ordinandogli di lasciar proseguire il mezzo con il suo carico. Quando nel 2006 furono gli agenti americani della Dea a sequestrare a Kabul un camion con 50 chili di eroina destinati alla guardia del corpo di Wali Karzai, le indagini vennero bloccate per ordine diretto di Washington [4]. Il 15 giugno 2007 in uno scambio di email “confidenziali” interne alla Stratfor Forecasting Inc., agenzia statunitense privata di intelligence, si legge che «Karzai finirà per essere un nuovo Noriega», chiaro riferimento all’ex dittatore panamense di cui abbiamo parlato nel capitolo sulle accuse di narcotraffico ai servizi segreti. Ma anche che «il fratello del presidente afghano Karzai è sotto inchiesta da parte della Dea in quanto narcotrafficante di primo piano, ma per ragioni politiche la Casa Bianca e la Cia hanno detto alla Dea di lasciar perdere» [5]. E così è stato, visto che Wali Karzai non verrà mai accusato di nulla fino al suo assassinio nel luglio 2011 da parte di un ufficiale di polizia, Sardar Muhammad, altro confidente di lunga data.
C’è poi Bashir Noorzai, definito “il Pablo Escobar afghano”, alla guida di grandi piantagioni di papaveri da oppio nella sua provincia natale di Kandahar, di decine di raffinerie sparse sul confine tra Afghanistan e Pakistan e di una rete di trafficanti internazionali basata tra Quetta e Dubai, nonché altro collaboratore della Cia fin dagli anni Novanta [6]. Lo stesso hanno fatto altri alleati Nato. Proprio a Kandahar i canadesi hanno affidato al colonnello Abdul Raziq, giovane narcotrafficante noto come “il signore di Spin Boldak” (cittadina sulla frontiera stradale con il Pakistan), il ruolo di mediare per loro conto con le locali tribù pashtun. A nord, i tedeschi, per proteggere il loro quartier generale di Faizabad si sono affidati invece al generale tagiko Nazir Mohammad, il più influente signore della guerra e della droga della regione. Tanto che alla fine persino l’allora capo dell’intelligence militare statunitense in Afghanistan, il generale di divisione Michael T. Flynn, ammise: «Se pensiamo di condurre una strategia di avvicinamento alla popolazione e invece veniamo percepiti come coloro che appoggiano i delinquenti, ci spariamo sui piedi da soli» [7].
Se a questo sommiamo poi l’ipotesi di essere direttamente coinvolti anche nel contrabbando dell’eroina in Occidente, il quadro diventa davvero imbarazzante. Per Barnett Rubin, consulente del governo Usa per l’Afghanistan, «quando il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld incontra in Afghanistan personaggi noti come narcotrafficanti, il messaggio che lancia è chiaro: aiutateci a combattere i talebani e nessuno interferirà con i vostri business» [8]. La connivenza degli Stati Uniti e della Nato con i signori della droga afghani prosegue anche dopo l’arrivo di Barak Obama alla Casa Bianca, ma con una rettifica. La nuova amministrazione decide di abbandonare l’imbarazzante linea, seguita fino a quel momento, di assoluto disinteresse al problema oppio, in favore di un intervento “selettivo” volto a colpire solamente i signori della droga legati ai talebani, ma – badate bene – solo quelli, perché con i narcos “amici” si continua invece a chiudere un occhio. Nell’agosto del 2009 un quotidiano statunitense annuncia che il Pentagono ha stilato una lista nera comprendente una cinquantina di narcotrafficanti afghani da catturare o da uccidere: «Non tutti i trafficanti, ma solo quelli che sostengono l’insurrezione e che con essa hanno legami certi» [9]. In Afghanistan la Cia e la Dea sono nuovamente in conflitto di interessi, peraltro con l’antidroga statunitense tra il 2001 e il 2003 con soli 2 agenti sul posto, saliti a 13 dopo il 2004.
L’anno seguente riuscirà così a far saltare la protezione politica che garantiva l’impunità al governatore dell’Helmand, Sher Mohammad Akhundzada, al quale la Dea trova nel suo ufficio ben 9 tonnellate di oppio. L’iniziativa ha enormi conseguenze politiche e militari: venuto a conoscenza della cosa, il contingente britannico schierato in quell’area ne chiede la rimozione. L’azione non avrà ugualmente alcun seguito legale poiché l’indagine è nuovamente bloccata da Washington e il presidente Karzai nel 2008 dichiara: «Abbiamo rimosso Akhundzada con l’asserzione della droga, consegnando la provincia ai corrieri, ai talebani, ai terroristi, al triplicato aumento della droga e della coltivazione del papavero. Ora ci sono centinaia di tonnellate di eroina nei distretti di Helmand» [10]. Ma la Gran Bretagna non ci sta e minaccia addirittura di ritirare le proprie truppe dall’Afghanistan se fosse stato reintegrato [11]. Akhundzada non tornerà a ricoprire la carica di governatore, ma Karzai lo nomina nel 2015 senatore al Parlamento nazionale di Kabul. L’economia afghana dell’oppio è un effetto diretto della politica nella regione della Cia e del governo statunitense [12].
I pashtun, etnia maggioritaria del Paese, da sempre esercitano un’egemonia politica sugli altri gruppi e la loro, assieme al dari, è una delle due lingue ufficiali dell’Afghanistan. Abitano prevalentemente le regioni orientali e centromeridionali del cosiddetto Pashtunistan (in italiano ‘la terra dei pashtun’), una fascia che scorre lungo il confine con il Pakistan, dove però il governo centrale di Islamabad ha dovuto loro concedere ampia autonomia, anche legislativa. Il papavero da oppio, da quella zona, si è rapidamente diffuso in tutto l’Afghanistan, trasformando questa nazione dell’Asia centrale nel principale produttore di eroina al mondo. […] Dall’arrivo dei contingenti internazionali ogni anno si è registrato un nuovo record nella produzione d’oppio, fino al tuttora ineguagliato 2007, quando con 193.000 ettari, l’Afghanistan ha garantito da solo il 130% del fabbisogno mondiale: 8.200 tonnellate [13]. In altre parole ha prodotto in 12 mesi 1/3 in più di tutto quello consumato in un anno nel mondo. Da allora, superando il Myanmar (l’ex Birmania), è diventato il più grande produttore globale di oppio, attestandosi su oltre il 90% delle forniture globali e con un fatturato annuo che supera i 65 miliardi di dollari, fino al 2007 pari alla metà del suo Pil.
L’Ufficio dell’Onu per la droga e il crimine (Unodc) ha stimato per il 2016 una produzione di 4.800 tonnellate di oppio, ammettendo sia «sottostimata sulla base dell’altezza e della densità delle piante osservata dai satelliti», malgrado ciò comunque quasi il doppio (+43%) delle 3.300 tonnellate dell’anno precedente. È aumentato inoltre il rendimento medio delle colture: dai 26,3 chilogrammi di oppio per ettaro del 2013, ai 28,7 chilogrammi del 2014. Di conseguenza, sempre per il 2016, l’Unodc stima una crescita del 30%, grazie alle «favorevoli condizioni climatiche» [14]. Le già inefficaci eradicazioni sono del resto calate nel 2016 del 91%, con appena 355 ettari distrutti. Ufficialmente per le difficili condizioni di sicurezza: 8 morti e 7 feriti nella campagna di eradicazione 2016, con 5 vittime e 18 persone colpite nell’annata precedente [15]. La verità sembra però essere un’altra, ben più scomoda. La chiariva anche un comunicato radio del comando della missione Nato, rivolto alla popolazione di quella provincia: «Stimato popolo dell’Helmand, i soldati dell’Isaf non distruggono i campi di papavero perché sanno che molti in Afghanistan non hanno alternative alla coltivazione del papavero. L’Isaf non vuole sottrarre alla popolazione i mezzi necessari per sostentarsi» [16]. Nel 2010, l’assistente strategico del generale americano Stanley McChrystal dirà la stessa identica cosa ai contadini del distretto di Majrah, formalmente parte di quello di Nad Ali nella provincia sud-occidentale di Helmand, appena riconquistato dai Marines americani dopo una grande offensiva militare: «Non distruggeremo le piantagioni di papavero, perché non possiamo colpire la fonte di sussistenza della popolazione di cui vogliamo conquistare la fiducia» [17]. Lo stesso presidente Karzai nel 2004 rigettò la proposta internazionale di fermare la produzione di oppio attraverso lo spargimento aereo di erbicidi chimici, spiegando che questa coltivazione costituiva l’unica fonte di sostentamento per larga parte degli afghani.
I rapporti annuali prodotti dall’Unodc dimostrano che l’Afghanistan sotto occupazione Usa-Nato ha raggiunto in pochi anni il quasi monopolio globale della produzione di oppio e quindi di eroina (oltre il 90% fin dai raccolti 2006/2007) a basso costo che ha invaso il pianeta. Già solo questi numeri segnano indiscutibilmente tutto il fallimento della campagna militare occidentale che ha trasformato l’Afghanistan in un narco-Stato, visto che per Ayub Rafiqi, direttore dell’Associazione proprietari terrieri della provincia di Kandahar, roccaforte talebana nel Sud del Paese, «circa il 60% delle piantagioni di papavero da oppio si trovano in terreni di proprietà statale, affittate dalle stesse autorità locali, spesso in nero, ai contadini privati» [18]. E purtroppo non è tutto. L’arrivo sul mercato locale dell’eroina ha portato, in tutte le principali città afgane, all’esplosione del consumo problematico, com’era stato in Occidente negli anni Ottanta. Dal 2003, più di 50.000 profughi sono rientrati da Iran e Pakistan portando a casa anche i propri problemi di dipendenza dall’eroina e diffondendo nuovi stili di consumo, quali l’uso delle siringhe, prima di allora praticamente sconosciuto. Il degrado delle condizioni di vita ha fatto il resto. Nel 2012 la maggiore crescita delle aree coltivate, con punte del 195% si è registrata nelle quattro province sotto il controllo italiano: Herat, Badghis, Ghor e Farah [19].
Il primo centro di recupero realizzato ad hoc dell’intero Afghanistan si trova a Herat (terza città del Paese), nel cui carcere 600 detenuti su 3.000 erano tossicodipendenti. Nel marzo 2014 ho potuto visitare quella comunità, scortato dai militari italiani a bordo di tre pickup blindati, civili e senza targa […] In quell’occasione, l’allora responsabile del Provincial Reconstruction Team (Prt) dell’Italia, Paese cui è affidato il comando Nato di quelle province al confine con l’Iran, mi ha spiegato che il centro era stato da loro realizzato nel 2011, in soli 6 mesi e investendo 140.000 euro. Il direttore della struttura mi rivelò invece che, progettato per 52 pazienti ne ospitava già oltre il doppio e fuori dal cancello stazionavano altre decine di persone, in attesa che si liberasse un posto. La comunità di Herat è di conseguenza del tutto insufficiente per il numero di eroinomani presenti in quella provincia, discorso che vale per l’intero Afghanistan. […] Nella comunità di Herat, in mancanza di una legislazione sui farmaci sostitutivi, avevano sperimentato il trattamento con l’idroterapia: «Il programma si basa al momento su una serie di immersioni in una piscina piena d’acqua molto calda. Così facendo, il paziente prova una sensazione di grande sollievo, dato che gli passano brividi e dolori», mi spiegò il medico responsabile della struttura [20]. Parallelamente, sostengono il loro fisico con vitamine, sali minerali e ricostituenti, mentre l’alimentazione è quasi esclusivamente a base di minestre o altri cibi liquidi.
[…] A Kabul, l’unico sedicente centro di disintossicazione si trova invece alla periferia sud della capitale ed è gestito dal ministero della Salute afghano. Qui viene praticata una terapia della durata di 45 giorni. Il dottor Abdullah Wardak, direttore del dipartimento per la riduzione del consumo di droga, ammette che i risultati del programma di riabilitazione sono a dir poco deludenti: «La mancanza di finanziamenti limita l’efficacia del nostro intervento: i pazienti dimessi dai nostri 17 centri presentano un tasso di ricaduta dell’80%» [21]. La cura consiste semplicemente nella somministrazione di dosi decrescenti di eroina e oppio e crescenti di sedativi e analgesici, man mano che si manifestano i sintomi dell’astinenza. Il tutto accompagnato da una razione quotidiana di docce gelate e prediche “motivazionali” del mullah del centro, che spiega ai ragazzi come la droga sia haram, proibita dal Corano. L’unico tentativo con una terapia sostitutiva, a base di metadone, l’aveva fatto la Ong francese Medecins du Monde che ha aperto nel 2010, col supporto del Global Found (oggi finanziato dalla Banca Mondiale), un centro diurno alla periferia di Kabul. Il farmaco, come mi ha spiegato il responsabile dalla Ong afghana Otcd che nel dicembre 2013 ha preso il posto dei francesi, viene tuttora importato da Parigi, tramite una apposita autorizzazione speciale governativa ottenuta dopo 4 anni di trattative [22].
Il programma pilota riguardava inizialmente 10-15 pazienti ed è tuttora limitato a 71, che prendono in media 125 milligrammi di metadone al giorno (il 30,5%) e per i quali il tasso di ricaduta resta ugualmente alto (77,5%). In media hanno 32 anni, sono sposati (il 50,7%), disoccupati (77,5%), sono finiti in galera (54%), hanno una casa (63%), si iniettano eroina (88%), hanno iniziato in Afghanistan (62%) da almeno 3-10 anni (58%). Il direttore della struttura mi mostrò anche le percentuali dei loro pazienti affetti da Hiv (15%), epatite C (59%) ed epatite B (15%), spiegandomi che allora erano gli unici nel Paese a effettuare il test dell’Aids. Il problema della disoccupazione è centrale nella politica afghana. L’agricoltura assorbe attualmente il 70-80% della forza lavoro e secondo l’Unione Europea bisogna creare 400.000 posti l’anno, anche per fronteggiare la massa di nuovi giovani che ogni anno cercano un impiego. I giovani rappresentano in Afghanistan il 70% della popolazione. È ovvio che se non si dà risposta a tale problema il rischio di arruolamento nel circuito della droga e di emigrazione verso l’Europa aumenterà sempre più. Riflettendosi anche nelle condizioni di vita, spesso difficili soprattutto nelle zone rurali, dove, per esempio, il 28% della popolazione ha tuttora un basso indice di nutrizione [23].
[…] Le accuse di “narcotraffico militare” hanno coinvolto praticamente tutti i contingenti che operano in Afghanistan, cui si aggiungono le compagnie di contractor che si occupano della logistica. Non avendo sbocchi sul mare, gli approvvigionamenti della missione Nato in Afghanistan (dal gennaio 2015 la Resolute Support) sono garantiti da un colossale ponte aereo. Quei velivoli tornerebbero indietro, verso l’Occidente, questa l’ipotesi, carichi anche di eroina. Nel settembre 2010 il ministero della Difesa di Londra avvia un’inchiesta militare sul coinvolgimento di soldati britannici e canadesi nel traffico di eroina afghana attraverso la base della Royal Air Force di Brize Norton (Oxfordshire), principale scalo per le truppe di questi due Paesi di ritorno dalla provincia di Helmand, a loro affidata e tra le principali a coltivare il papavero da oppio. «La maggior parte dei nostri clienti, esclusi i trafficanti all’estero, è composta da militari stranieri che ne comprano tanta: a fine missione ce la ordinano, noi gliela vendiamo e loro se la portano a casa sugli aerei militari dove tanto nessuno li controlla», mi confermerà un trafficante afghano [24]. Anche in quel caso dell’inchiesta militare britannica non si saprà più nulla, mentre quella canadese, al solito, viene archiviata.
Sean Maloney, consigliere del capo di Stato Maggiore delle forze armate canadesi, tuttavia dichiara senza il minimo imbarazzo: «Non mi sorprende affatto che soldati Nato smercino eroina dalla base aerea di Kandahar: le cose funzionano così laggiù da quando i signori della droga afghani hanno capito che usando quell’aeroporto possono smerciare eroina all’estero tagliando fuori gli intermediari pakistani di Karachi (metropoli portuale pakistana, nda), realizzando così profitti molto più elevati» [25]. Lo scorso anno in Afghanistan con 187 dollari si poteva comprare un chilo d’oppio essiccato (152 per quello fresco): in Europa la stessa quantità potrebbe valere all’ingrosso almeno 10.000 dollari. Un chilo di eroina a Kabul costa 3.300 dollari, che nel Vecchio Continente lievita a 40.000 [26]. Ecco spiegata la benzina che alimenta le narcomafie mondiali. Ci sono poi le compagnie private, anche queste con possibilità di operare dagli aeroporti militari delle basi, nelle quali le polizie nazionali non hanno giurisdizione. La più famosa è sicuramente la Aero Contractors (nuovo nome del vettore aereo della Cia), già oggetto delle stesse accuse durante la guerra del Vietnam, oggi operante con diverse compagnie di copertura come la Devon Holding and Leasing, i cui velivoli anche in tempi recenti sono precipitati o sono stati intercettati carichi di droga.
La sigla identificativa N168D del Beechcraft King Air 200, aereo di cui abbiamo già parlato in merito ai Contras dell’America centrale, ritrovato nel 2004 in mezzo alla giungla del Nicaragua con a bordo 2 tonnellate di cocaina purissima, nel 2010 è stata usata per un altro aereo proprio in Afghanistan [27]. C’è poi la Ecolog con sedi dalla Germania alla Cina, passando per la Turchia, naturalmente al lavoro anche in Kosovo, altro importante hub di transito dell’eroina afghana verso l’Europa, lungo la storica rotta balcanica. Questa società appartiene al potente clan albanese-macedone dei Destani. La Far West, ombrosa società con sede a Dubai, è invece di proprietà dell’ex generale ucraino vicino ai servizi segreti di Kiev, Vladimir Litovchenko, il quale nel 2004 dichiarò: «Gli americani trafficano in Europa tra le 15 e le 20 tonnellate di eroina l’anno» [28].
[…] Il 27 marzo del 2011, nella caserma “Manlio Feruglio” di Venzone (Udine) è appena rientrato un reggimento di alpini dall’Afghanistan. All’interno della base il via vai è continuo: da giorni si smista il materiale bellico usato in quella missione. Un armiere apre una cassa per avviare la manutenzione del contenuto. All’interno trova 362 grammi di stupefacenti (trattandosi di polvere quasi sicuramente eroina, altri sostengono hashish, cosa difficile poiché quest’ultimo è in forma solida), avvolti nel nylon e occultati nelle canne di 8 fucili e in 9 altri involucri. Denuncia immediatamente l’episodio ai suoi superiori, i quali allertano la vicina procura di Tolmezzo (Ud). Le verifiche portano così alla scoperta, due giorni dopo, il 29 marzo, di ulteriori 167 grammi, divisi in sacchetti e infilati in altri quattro fucili. In totale, quindi, oltre mezzo chilo. L’indagine viene in seguito spostata a Roma, competente per tutti i reati commessi dagli italiani all’estero, per poi finire nelle mani della procura militare. Da allora, come troppo spesso accade in questi casi, non se ne sa più nulla. Silenzio assoluto. Per non parlare del gip che aveva avviato l’inchiesta a Tolmezzo, Alessandra Burra, che non solo oggi non è più giudice inquirente (dal penale ora è al civile), ma è stata spostata anche dalla procura di Udine (Friuli) al tribunale di Treviso (Veneto) e si occupa di esecuzioni immobiliari. «Mi spiace, ma mi trovo comunque nella posizione di non poter parlare di indagini svolte, ancorché esaurite, senza l’autorizzazione», ha risposto a una mia richiesta di intervista il 25 gennaio 2017 [29].[…] Ancora più emblematico il caso di Alessandra Gabrieli, giovane parà della Folgore e prima donna paracadutista d’Italia, con all’attivo diverse missioni internazionali (Kosovo, Libano, Iraq). Il 12 agosto viene fermata dai carabinieri di Genova, sua città d’origine, nel corso di un’operazione antidroga volta a sgominare una rete di spaccio attiva tra Milano e il capoluogo ligure. Nella sua auto i militari dell’Arma trovano 9 grammi di eroina, altri 26 nel corso della successiva perquisizione nella sua abitazione. È eroina purissima, di quella che difficilmente si trova in strada, men che mai in vendita al dettaglio. Ai carabinieri, la Gabrieli ammette: «Mi hanno iniziato all’eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall’Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall’Asia» [30]. Nel successivo procedimento penale a suo carico, la Gabrieli sceglie il rito abbreviato. Il 20 settembre 2011 viene così condannata a tre anni e mezzo di reclusione. Gli atti di quel procedimento, che contengono anche le sue scottanti dichiarazioni, non diventeranno mai pubblici, essendo questa una delle prerogative di quella tipologia di giudizio (come lo sconto di un terzo della pena), che peraltro non prevede dibattimento dato che la decisione sulla fondatezza o meno dell’imputazione viene presa direttamente nell’udienza preliminare, a porte chiuse, con le sole prove fino ad allora raccolte. Tuttavia anche in questo caso, gli atti, una volta secretati, vengono trasmessi a Roma alla magistratura militare. La Gabrieli ha del resto paventato il coinvolgimento di militari nel traffico di eroina dall’Afghanistan. Inutile aggiungere che anche stavolta l’indagine della procura militare finisce in una bolla di sapone: archiviata dopo un anno.
L’eroina che gli avevano sequestrato era talmente pura che al momento del test in laboratorio, i tecnici ritararono le macchine, ritenendo l’esito delle analisi frutto di errore. Riguardo alla purezza di questa sostanza, nel dicembre 2016 sono stati diffusi i dati di alcune analisi di quella che si trova per le strade di Torino, effettuate da Baonps, primo progetto italiano di drug checking (‘test delle sostanze’) ad essere stato finanziato dall’Unione Europea [31] . I risultati rivelano che è pura attorno al 50%, quasi sempre oltre il 30%, rispetto al normale contenuto di principio attivo, da anni mediamente più basso di 5-10 volte [32]. Le morti per overdose registrate in quei mesi in Piemonte, potrebbero quindi essere il risultato dell’uso inconsapevole per via endovenosa di eroina anche dieci volte più potente di quella normalmente disponibile. Grazie al drug checking è stato possibile lanciare immediatamente l’allarme, cercando di diffonderlo il più possibile, attivando la rete fortunatamente ormai consolidata in Piemonte di drop-in, unità mobili e gruppi di interesse dei consumatori stessi (i cosiddetti servizi di bassa soglia), che favorisce il dialogo fra consumatori e attività socio-sanitarie sia pubbliche sia private, ma ricorrendo anche ai social media [33]. Gli esiti delle analisi sono stati definiti «sorprendenti e preoccupanti» dagli operatori, che si pongono domande quali «cosa sta succedendo nel mercato? Perché qualcuno sta vendendo allo stesso prezzo eroina così pura?». La risposta potrebbe arrivare dalla sovrapproduzione che si è registrata in Afghanistan a partire dal citato record del 2007 e dall’inarrestabile aumento dell’oppio raccolto nel Paese proseguito fino ad oggi. […]
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