L’eliminazione dell’epatite virale. di Enrico Tagliaferri

Le epatiti virali costituiscono ancora una rilevante causa di morte: nel mondo, nel 2015, hanno causato 1,34 milioni di morti per cirrosi ed epatocarcinoma, più o meno quanto la tubercolosi e più dell’HIV.

Le nuove terapie per l’epatite virale C (Hepatitis C Virus – HCV) e la vaccinazione per l’epatite virale B (Hepatitis B Virus – HBV) hanno avuto e avranno un enorme impatto su queste infezioni e la loro eliminazione sembra oggi un obiettivo realistico. Tuttavia, le epatiti virali costituiscono ancora una rilevante causa di morte: nel 2015 le epatiti virali hanno causato 1,34 milioni di morti per cirrosi ed epatocarcinoma, più o meno quanto la tubercolosi e più dell’HIV; di queste morti, quasi un milione è stato causato dall’HBV (Figura 1).[1]

Figura 1. Numero di morti, 2000-2015

Nel 2015 nel mondo, è stata stimata una prevalenza di infezione da HBV nella popolazione del 3,5%, pari a circa 257 milioni; il continente più colpito è l’Africa con una prevalenza del 6,1% (Figura 2). Circa 2,7 milioni dei 36,7 milioni di persone con infezione da HIV aveva una co-infezione da HBV. [1]

Figura 2. Prevalenza di HBsAg per regione OMS, 2015

Un contributo rilevante alle nuove infezioni è dato dalla trasmissione verticale. Anche da questo punto di vista l’impatto maggiore è sostenuto dall’Africa, che ha una prevalenza di HBsAg  (antigene dell’epatite B)tra i bambini sotto i 5 anni di circa il 3%, la più alta tra i continenti (figura 3). [Il paziente positivo all’HBsAg è considerato infetto e quindi potenzialmente contagioso].

Figura 3. Prevalenza di HBsAg sotto i 5 anni, 2015

 

Per ridurre  il rischio di trasmissione verticale l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda di somministrare entro 24 ore dal parto la prima dose di vaccino, seguita poi da altre due dosi. In generale il vaccino riduce del 95% il rischio di trasmissione, ma questa è ancora possibile soprattutto per le madri ad alto rischio. In assenza di interventi, le madri con infezione da HBV ad alto rischio, cioè HBeAg positive o con carica virale sopra le 200.000 UI/ml, hanno una probabilità del 70-90% di trasmettere l’infezione al figlio durante la gravidanza, contro un rischio del 10-40% per le madri a basso rischio.[2] Alcuni studi riportano, nonostante il vaccino entro le prime 24 ore del neonato, un rischio residuo di trasmissione, per le madri ad alto rischio, in Asia e Africa, dal 20 al 32%, contro l’1% per le madri a basso rischio.[3] Per questo nelle ultime linee guida l’OMS raccomanda la profilassi dell’HBV nelle madri ad alto rischio dalla 28ma settimana fino a dopo il parto.[4In Africa Sub Sahariana, molte donne con infezione da HBV sono co-infette da HIV e assumono come parte della loro terapia antiretrovirale il tenofovir, attivo anche su HBV, ma l’utilizzo della sola terapia per HBV come parte di una strategia per limitare la trasmissione verticale di HBV nelle donne senza co-infezione è tutta da stabilire.

Recentemente uno studio di fattibilità sull’uso del tenofovir è stato condotto nella Repubblica Democratica del Congo (DRC).[5] La prevalenza di HBV in DRC è 3,3%, con una prevalenza del 2,2% tra i bambini sotto i 5 anni, il che equivale a 300.000 bambini con infezione cronica e a rischio di malattia epatica e morte. Sebbene la vaccinazione sia ormai adottata dal 2007, la prima dose non viene somministrata prima di 6 settimane di vita e non sono in atto programmi specifici di prevenzione per l’HBV nonostante la diffusa adozione di strategie per la prevenzione della trasmissione verticale dell’HIV. Lo studio è stato condotto nei due maggiori centri per cure pre-natali della capitale Kinshasa. In sei mesi sono state studiate 4016 donne di cui 90 sono risultate arruolabili perché positive per HBsAg ed entro la 24esima settimana di gestazione e 10 di queste sono risultate ad alto rischio, di cui 9 sono state arruolate. Queste hanno ricevuto tenofovir 300 mg dalla 28esima settimana di gestazione fino ad almeno 12 settimane dopo il parto e tutti i nati da madri HBsAg-positive hanno ricevuto una dose di vaccino entro 24 ore dal parto. Tutte le donne sono andate incontro ad una riduzione della carica virale, in 5 casi al di sotto di 200.000 UI/ml. Nello studio non si è verificato nessun caso di trasmissione. Tra le donne trattate non è stato registrato nessun effetto collaterale di rilievo e le procedure dello studio sono state giudicate accettabili dalla grande maggioranza.

Ovviamente si tratta di un’esperienza non facilmente replicabile in aree rurali, decentrate e povere, dove non sono disponibili test per HBeAg e viremia. Tuttavia, l’esperienza di altre infezioni, come HIV e tubercolosi, ci ha insegnato che metodiche considerate fino a pochi anni fa di esclusivo appannaggio di laboratori di alto livello, come l’amplificazione genica, possono essere rese completamente automatizzate, molto semplici da eseguire e relativamente economiche. Se tutte le donne in gravidanza potessero accedere anche a livello periferico ad un primo screening per HBsAg, quelle positive potrebbero essere riferite a centri di livello superiori, ad esempio livello di distretto, per l’approfondimento e la terapia.

Nel frattempo è prioritario adottare una strategia di vaccinazione alla nascita. Nel 2015, nel mondo, l’84% dei bambini sotto i 5 anni ha ricevuto tre dosi, ma solo il 34% ha ricevuto una dose alla nascita e in Africa solo il 10%.[1] Le ragioni sono molte: la scarsa disponibilità di vaccini e catene del freddo efficienti a livello periferico, il fatto che molte donne in aree rurali partoriscono a casa, la scarsa conoscenza del problema. Infine, come per ogni malattia, il contrasto all’epatite virale non può che passare attraverso un miglioramento delle condizioni di vita, dell’istruzione, dell’accesso a strategie di prevenzione e servizi sanitari di qualità, in particolare per le donne.

L’OMS ha fissato l’obiettivo di eliminare l’epatite virale come significativo problema di sanità pubblica, ridurre l’incidenza di epatite cronica da 6-10 milioni a 0,9 milioni e il numero di morti da 1,4 milioni a meno di 0,5 milioni entro il 2030.[6] Perché questo si realizzi, dovrà essere messa in atto una strategia articolata basata su un più ampio accesso al test e alle cure, visto che si stima che solo il 9% dei casi di infezione cronica è diagnosticato e solo l’8% di questi è in trattamento[1], programmi di riduzione del danno per i tossicodipendenti, controllo universale della donazioni di sangue ed emoderivati, servizi di prevenzione per malattie sessualmente trasmesse, il definitivo abbandono di pratiche sanitarie a rischio quale il riutilizzo delle siringhe, campagne di sensibilizzazione, ma anche vaccinazione precoce e  terapia delle donne ad alto rischio, anche nei paesi a basso reddito.

Enrico Tagliaferri, Infettivologo, Azienda Ospedaliera-Universitaria Pisana

Bibliografia

  1. WHO. Global hepatitis report, 2017. Geneva: World Health Organization, 2017.  (accessed July 21, 2020).
  2. Gentile I, Zappulo E, Buonomo AR, Borgia G. Prevention of mother-to-child transmission of hepatitis B virus and hepatitis C virus. Expert Rev Anti Infect Ther 2014; 12: 775–82.
  3. Keane E, Funk AL, Shimakawa Y. Systematic review with meta-analysis: the risk of mother-to-child transmission of hepatitis B virus infection in sub-Saharan Africa. Aliment Pharmacol Ther 2016; 44: 1005–17.
  4. WHO. Prevention of mother-to-child transmission of hepatitis B virus: guidelines on antiviral prophylaxis in pregnancy. Geneva: World Health Organization, 2020. (accessed May 25, 2021).
  5. Thompson P, Morgan CE, Ngimbi P, Mwandagalirwa K, Ravelomanana NLR, Tabala M, Fathy M, Kawende B, Muwonga J, Misingi P, Mbendi C, Luhata C, Jhaveri R, Cloherty G, Kaba D, Yotebieng M, Parr JB. Arresting vertical transmission of hepatitis B virus (AVERT-HBV) in pregnant women and their neonates in the Democratic Republic of the Congo: a feasibility study. Lancet Glob Health 2021:S2214-109X(21)00304-1. doi: 10.1016/S2214-109X(21)00304-1. Online ahead of print.
  6. WHO. Global health sector strategy on viral hepatitis, 2016–2021: towards ending viral hepatitis. Geneva: World Health Organization, 2016.  (accessed May 25, 2021)
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