Dopo un lungo oblio, LSD, psilocibina, mescalina e MDMA vivono una seconda giovinezza in campo medico.
Negli Stati Uniti le sperimentazioni condotte da prestigiose università hanno suscitato un nuovo interesse per i cosiddetti allucinogeni culminato lo scorso primo giugno con il voto del Senato della California su una legge che pone fine al proibizionismo sull’uso personale e sociale degli psichedelici. La legge ora passa alla Camera per l’approvazione definitiva. Si tratta comunque del segnale di una mutata sensibilità politica dopo il risveglio delle coscienze già registrato su questo tema in campo economico e scientifico.
Sembrano lontani gli anni della campagna persecutoria ingaggiata contro LSD e altri psichedelici accusati di fiaccare la gioventù e alimentare la controcultura. Il proliferare di un consumo incontrollato di composti concepiti in laboratorio ha inciso in maniera nefasta sull’uso medico di sostanze che, lo dimostrano studi recenti ma lo affermavano psichiatri e ricercatori già 70 anni fa, possono diventare determinanti per risolvere gravi patologie psichiatriche.
Da quando il 16 aprile del 1943 Albert Hofmann sperimentò casualmente su se stesso le proprietà dell’LSD, i composti psichedelici sono stati al centro di migliaia di ricerche mediche, molte delle quali hanno offerto fin dalle prime battute risultati incoraggianti.
Oggi le sostanze psichedeliche tornano a essere un valido strumento di cura e, grazie al neuroimaging, anche vettore per esplorare i territori più remoti e misteriosi della mente.
Tra i principali fautori di questa rinascita c’è Rick Doblin, che nel 1986 ha fondato MAPS, Multidisciplinary association for Psychedelic Studies, una no profit che promuove ricerche e sperimentazioni per sviluppare usi terapeutici degli psichedelici.
Lo studio più rilevante di MAPS riguarda il disturbo da stress post-traumatico, PTSD, che può essere considerato il male dei nostri giorni, ineluttabilmente collegato al Covid.
La ricerca, finanziata e condotta in collaborazione con la University of California di San Francisco e altri centri di eccellenza negli Stati Uniti ha preso in esame 89 casi accertati e gravi di disturbo da PTSD: reduci di guerra, vittime di violenza, superstiti a stragi.
L’elemento chiave della ricerca è stato l’MDMA, comunemente nota come ecstasy, somministrata in sicurezza per consentire al paziente di affrontare durante la psicoterapia gli aspetti più dolorosi del trauma subito. Gli esiti sono stati eccezionali. “Non è la droga a fare miracoli, è la terapia combinata con la droga”, ha specificato Doblin, che coordina la ricerca. Dopo tre sessioni di terapia propedeutica, i pazienti hanno ricevuto dosi di placebo o di MDMA, in tre sedute di 8 ore ciascuna nell’arco di due mesi, supportati da due psicoterapeuti, un uomo ed una donna. Nel follow-up tenuto due mesi dopo la fine del percorso, il 68% dei volontari curati non aveva più sintomi tali da configurare una diagnosi di PTSD, contro il 32% delle persone trattate soltanto con placebo e psicoterapia. Comunque sia, l’88% dei pazienti del gruppo che ha ricevuto MDMA ha sperimentato una riduzione clinicamente significativa dei sintomi.
La ricerca ha superato il primo dei due trial clinici di fase 3 e la sperimentazione è vicina all’approvazione della Food and Drug Administration statunitense. Studi analoghi sono a buon punto in Germania, Svizzera, e Inghilterra.
I primi risultati dimostrano che le potenzialità sono enormi. Presto anche l’agenzia europea per il farmaco sarà chiamata a esprimersi sul ritorno agli psichedelici come chiave per comprendere e curare la mente umana.
Federico Menapace: Multidisciplinary Association for Psychedelic Studies (MAPS.org)
fonte: Fuoriluogo