Uno dei temi più gettonati nel dibattito attuale sulla disabilità, e sulla non autosufficienza più complessivamente intesa, oltre ai mille aspetti della accessibilità, è quello dei cosiddetti caregiver, oggetto non solo di riflessioni, ma anche di vari provvedimenti legislativi nazionali o regionali, oltreché… di qualche barzelletta come quella sui “Car Giver” che guiderebbero l’auto dei nonni non autosufficienti…
Vari possono essere i motivi di cultura sociale che hanno portato all’attenzione questo tema e il suo strutturarsi concettuale e lessicale.
Sinteticamente, schematicamente e dimenticando senz’altro altri aspetti:
– Ovviamente quanto ci restituiscono la demografia e la statistica in tema di invecchiamento della popolazione, di aumento delle non autosufficienze, di composizione e vicende delle famiglie e della loro capacità di cura e altri fattori ancora.
– Un’evoluzione organizzativa, ma anche culturale, di temi che con il dibattito sul caregiver hanno una qualche parentela, come quello del “Dopo di Noi”, e del “Durante Noi”, soprattutto, e quelli relativi alla affermazione di soggettività e indipendenza di una parte delle persone con disabilità (vita indipendente, autonomia, empowerment).
– Un sicuro forte interesse della politica per questo tema da quando (da due/tre anni), la disabilità serve alla stessa come contraltare ai target sociali “cattivi” (migranti, rom, carcerati…), tanto da istituire un Ministero ad hoc, oggetto, nelle due edizioni, più di perplessità che di plauso.
– L’agire dell’associazionismo della disabilità, che anche a partire da questo tema, ha costruito, anche spesso con elementi di unitarietà, una propria rappresentatività nei confronti delle amministrazioni centrali (Governo) e periferiche (Regioni). Pur nelle luci ed ombre che da sempre contraddistinguono il tema della rappresentanza nel e del Terzo Settore e ancor più oggi, nell’epoca della Riforma dello stesso.
Le radici del dibattito: il Fondo Nazionale
Il tema, almeno nella sua rappresentazione che ne dà l’informazione (televisioni, giornali, web, stampa specializzata), è solcato da molteplici aspetti di ambiguità (termine che per chi scrive non ha un’accezione negativa… tutt’altro), che tra l’altro, nella sua concreta applicazione nazionale, hanno fatto si che il Fondo istituito in materia alla fine del 2017, con la Legge di Bilancio per il 2018 [Legge 205/17, articolo 1, comma 254, N.d.R.] trovasse la sua concreta applicazione solo nel gennaio di quest’anno con la ripartizione dei fondi alle Regioni e l’emanazione di alcune prime linee di intervento molto generiche [pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, il 22 gennaio 2021, del Decreto del 27 ottobre 2020, N.d.R.].
Scrive il Centro Studi Giuridici HandyLex: «Le risorse verranno ripartite tra le Regioni, affinché le utilizzino per interventi di sollievo e di sostegno per i caregiver familiari, secondo delle linee di indirizzo che ciascuna di esse dovrà adottare ed inviare alla segreteria del Dipartimento per le politiche della Famiglia, entro il 23.03.2021 (sessantesimo giorno dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto), onde poi ottenere le risorse richieste. Il Dipartimento, una volta esaminata la richiesta, dovrà provvedere entro i successivi 45 giorni all’erogazione in un’unica soluzione delle risorse richieste da parte di ciascuna regione, che poi dovrà, a sua volta, nei successivi 60 giorni, erogarle ai singoli Ambiti territoriali».
A questo va aggiunto il fatto che la Legge che intende tutelare i caregiver, inserendo gli stessi all’interno della rete dei servizi, riconoscendone anche le coperture previdenziali e non solo un ruolo e dei sostegni, è ancora ferma in Senato [Disegno di Legge n. 1461: “Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare”, N.d.R.]. Questo determina che i diritti economici e sociali restano per ora congelati, rimanendo riferibili alla sola area di applicazione della Legge 104/92.
Il dibattito: l’agire nelle Regioni e nei Comuni
I tempi delle ricadute effettive non sono quindi preventivabili, anche in funzione del fatto che alcune Regioni e/o Comuni si sono già mossi in materia da diverso tempo, con proprie norme e progettualità.
L’Emilia Romagna, ad esempio, anche su impulso di un associazionismo in materia, ha addirittura legiferato in tempi non sospetti, nel 2014, anche se le linee attuative sono uscite solo tre anni più tardi, e qui non può non vedersi la mano degli investimenti fatti da anni in tema di non autosufficienza che hanno portato quella Regione ad avere per molto tempo un Fondo Regionale in questo settore ben superiore di quello nazionale.
Anche altre Regioni (Campania, Abruzzo, Puglia) hanno legiferato più recentemente, altre ancora hanno ricompreso il tema in più ampi provvedimenti legati alla non autosufficienza e in Lombardia proprio in questi mesi si sta proponendo una Legge di iniziativa regionale.
Iniziative – da quelle più articolate a quelle più sporadiche o focalizzate su singoli aspetti – sono state attivate in numerosissimi Comuni italiani. Tra i temi più gettonati l’area delle patologie di deterioramento cognitivo (Alzheimer), i corsi di formazione, il supporto psicologico. Di questi mesi è la partenza a Bologna della prima tranche di un progetto articolato, ancorché in fase sperimentale, interamente finanziato dal Comune con un milione di euro.
I limiti del dibattito
Detto del fervore organizzativo della Pubblica Amministrazione, proviamo a delineare alcuni elementi del dibattito che avrebbero bisogno di essere chiariti maggiormente.
Il primo è il “tono” stesso del dibattito: più che su elementi organizzativi e sull’analisi di quelli che sono i bisogni maggiormente sentiti dai caregiver, il dibattito ha spesso un tono sostanzialmente politico. Più orientato ad un pragmatismo organizzativo nel settore degli anziani, dove l’associazionismo presente è in larga parte di estrazione sindacale, con tutto quello che ne consegue in termini di capacità di trattativa su oggetti concreti. Largamente con toni rivendicativi, e a volte ideologici, nell’àmbito della disabilità (salvo in parte il tema di eventuali tutele previdenziali), in cui indubbiamente la permanenza nel ruolo ha aspetti e tempi infinitamente più complessi di quelli sperimentati dai figli o dai nipoti delle persone anziane diventate non autosufficienti, ma con alle spalle una lunga carriera di “normalità” e di cura essi stessi verso i futuri caregiver. Discorso a parte su alcuni aspetti merita forse l’àmbito delle patologie di deterioramento cognitivo.
Altro elemento da considerare è che il dibattito è tutto centrato sui diritti dei caregiver, mentre la parte legata agli impegni (usiamo questo binomio diritti/impegni, anche se forse hai dei limiti ai fini del ragionamento) è del tutto assente, sia quelli legati ai vincoli parentali che quelli introducibili dentro a forme di accordo (“patti di cura”) con le Pubbliche Amministrazioni.
Il secondo è un elemento confusivo che vede ascritti alla categoria del caregiver ora i soli familiari, ora anche il personale che presta attività di assistenza a domicilio, le “badanti” in primis, mentre gli interventi legislativi guardano esclusivamente ai familiari. Diversità anche nelle disposizioni legislative, ora legate alla certificazione di handicap grave, ora alla semplice autodichiarazione di assistere una persona non autosufficiente.
Sullo sfondo si sta ampliando un’“offerta” di attenzioni e servizi per i caregiver. Oltre infatti alle iniziative delle Pubbliche Amministrazioni, si strutturano alla luce di questa parola chiave anche parte degli assetti associativi: in fondo l’associarsi è il primo e più antico intervento a favore dei caregiver, attivato da sé medesimi per sé medesimi. A questi si aggiunge negli ultimi anni anche un’offerta del settore profit, spesso pure tramite la messa a disposizione di piattaforme web, che forniscono al tempo stesso interventi per la persona con disabilità e per il caregiver, intrecciando assistenza, consulenza, formazione, appoggio psicologico, trasporto, interventi sanitari in una sorta di all inclusive del settore.
Un processo di ridefinizione del mercato della cura dove privato e terzo settore hanno inevitabilmente un fronte di competizione per riassorbire ciò che per molti anni è stato ad appannaggio del settore delle badanti, singole o legate ad agenzie interinali.
Uno “sbilanciamento” dell’offerta, per ora, non solo di aiuti, ma anche in termini identitari che, pure per quanto detto sopra, pare in linea teorica più utile per figli e nipoti di anziani che per i genitori o i familiari di persone con disabilità, in particolare quelle con deficit di tipo congenito.
Ambiguità: governarla perché sia risorsa
Infine, per ultima, ma non ultima, un’ambiguità sostanziale del tema di sua natura, principalmente su due aspetti.
Da una parte il fatto che alcuni lo vedono come pericoloso in tema di possibile scarico sulle famiglie, tramite l’assunzione di un ruolo… sociale? professionalizzante? ma che comunque cambia l’identità della persona, spostandola, con il riconoscimento di un ruolo codificato, dall’area riferita ai soli legami affettivi familiari. In questo più d’uno penserà che le Pubbliche Amministrazioni hanno da stare attente a non concedere troppo e di sconfinare in ciò che è connesso come cura/responsabilità negli obblighi parentali e le famiglie/singoli a prendersi troppi “impegni” o comunque non parametrati a ciò che si riceve in cambio.
Dall’altra parte, istituendo il ruolo/figura/identità del caregiver (…e qui l’inglese gioca la sua parte) si “utentizza” in parte la persona (lo si mette cioè dentro ai Piani Assistenziali, lo si fa oggetto di interventi dei servizi) e dall’altra lo si professionalizza (crediti se vuole fare corsi da Operatore Socio Sanitario; attività di formazione), operazioni anche legittime e utili, se condotte dentro ad una consapevolezza.
Al di là di questo va tuttavia detto che in un’ottica di pensiero complessivo sulla non autosufficienza (l’istituzione del gruppo di lavoro presso il Ministero e alcune linee entrate a far parte del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza aprono prospettive speriamo utili), anche poter fare emergere volti, storie… e numeri della larga fetta del lavoro di cura della non autosufficienza sconosciuta ai servizi, e portato avanti da famiglie con sufficienti risorse umane ed economiche, si rivela certamente utile per una visione e programmazione complessiva su un tema complesso come quello della non autosufficienza, che ha svariate implicazioni di ordine economico e di impatto sulle generazioni, ed è destinato ad un incremento, almeno nel breve/medio termine.
Non ultimo, infine, quanto successo, soprattutto nel 2020, a causa del Covid nelle strutture per anziani che ha riportato l’attenzione inevitabilmente sulle soluzioni domiciliari. E qui il dibattito RSA sì, RSA no, RSA forse…. è ancora tutto da fare, tra problemi di semplificazione e fuga del personale verso strutture pubbliche.
Cito per ultimo un elemento che si ricava dalle progettazioni che circolano, da quanto si legge come contenuti nelle riviste e da quanto si ricava dalle architetture informative dei siti dedicati al tema: al caregiver ci si rivolge per diminuirne la fatica, fisica e mentale, per “abbassare ciò che è doloroso”. Personalmente credo bisognerebbe progettare per lui anche ciò che è gradevole, da viversi in autonomia o anche con il familiare bisognoso. Qui l’inventiva può sbizzarrirsi.
E per concludere…
Credo dunque che quella del caregiver sia una tematica che ha bisogno di maggior dibattito e di fare un passo in avanti, con l’evidente necessità che il riflettore del discorso si posi anche sul caregiver e sui suoi bisogni, pur restando la persona non autosufficiente, inevitabilmente, il cuore del ragionamento, stante che non esiste caregiver senza un non autosufficiente. Insomma, non pretendere di cambiare il centro del discorso, ma fare un discorso… policentrico, se mi si permettete il gioco di parole.
Caregiver, al pari di vita indipendente, empowerment, autonomia… ora anche accessibilità e inclusione, come termini del dibattito sulla disabilità del nuovo millennio. Dibattito a volte un po’ affrettato e sballottato tra scenari nazionali, progetti locali, visibilità mediatica e nuovi lessici dentro cui il “progettuale” migra senza tutte le vecchie collaudate sicurezze dello psico-socio-pedagogico.
fonte: SUPERANDO