Dal 6 agosto per alcune attività servirà il Green pass. Ma l’obbligo della certificazione verde non è un obbligo di vaccinazione perché chi non è vaccinato può ricorrere al tampone. Dopo il decreto del governo restano comunque aperte varie questioni.
Cos’è la certificazione verde italiana
Complici i social network, il dibattito sull’uso della certificazione verde Covid-19 sta rapidamente degenerando in discussioni insensate e paragoni improponibili e francamente irrispettosi con epoche storiche che nulla hanno a che vedere con quella attuale. Segnalando anche una dose non trascurabile di schizofrenia nel paese. Solo qualche mese fa, gli hashtag erano contro l’Unione europea, colpevole di non essere riuscita a procurare i vaccini; e la notizia da inseguire (e da commentare coi like) era il giornalista che aveva fatto il vaccino saltando la fila. Oggi la notizia alla quale si dà la caccia è, da una parte, il politico o l’influencer di turno che il vaccino non l’ha fatto e non lo vuole fare; dall’altra gli insulti a chi si schiera apertamente a favore dei vaccini.
Come si legge sul sito ufficiale del governo, la certificazione verde Covid-19 è in formato digitale o stampabile (con un QR code); dal 1° luglio è valida anche come EU digital certificate (Green pass) e quindi facilita i viaggi da e per i paesi dell’Unione europea e dell’area Schengen (attenzione: “facilita”, quindi è bene verificare le regole in vigore paese per paese).
Per quanto sorprendente possa sembrare dalla discussione in corso, la certificazione verde non equivale alla vaccinazione. Viene infatti rilasciata a tre categorie di soggetti: chi si è vaccinato contro il Covid-19, chi ha ottenuto un risultato negativo al test molecolare/antigenico, chi è guarito dal Covid-19. Quello che cambia tra le categorie di soggetti è la validità della certificazione. La risposta è un po’ nascosta, ma nell’elenco delle Faq si scopre che si va da 48 ore (per chi ha un tampone negativo) a 270 giorni (circa nove mesi) per chi ha fatto il vaccino (una dose o due a seconda del tipo). Chi è guarito dal Covid-19 può ottenere una certificazione che dura 180 giorni o 270 nel caso si decidesse di fare almeno una dose di vaccino entro 12 mesi dall’infezione, in base all’ultima circolare ministeriale del 21 luglio: è il medico o la Asl competente che devono trasmettere il certificato di guarigione alla piattaforma nazionale, poi il certificato viene emesso in automatico.
Quando serve
Quello di cui si discute è cosa si possa fare con la certificazione verde. Come già accaduto in Francia e Austria, con il decreto del 22 luglio il governo ha fatto le sue scelte politiche, estendendo l’obbligatorietà della certificazione verde per i ristoranti al chiuso e nei bar per le consumazioni al tavolo, per i cinema e i teatri, per le competizioni sportive, le piscine e le palestre, ma anche per fiere, sagre, convegni, parchi divertimento, sale gioco, partecipazione a concorsi. Prima di questo decreto, la certificazione era obbligatoria per accedere alle Rsa e per partecipare alle feste di matrimonio. Non sono stati toccati i trasporti, in particolare i treni a lunga percorrenza, gli aerei o le navi.
L’obbligatorietà della certificazione verde è però una cosa diversa dall’obbligo di vaccinazione: vuol dire che se una persona non è vaccinata per qualsivoglia ragione, deve fare almeno un tampone. Certo, il tampone costa tempo e denaro, che viene risparmiato a chi invece genera esternalità positive vaccinandosi. Si tratta di un caso di scuola di sussidio pigouviano (in qualche modo ridotto dalla decisione del governo, sempre del 22 luglio, di calmierare il prezzo dei tamponi).
Alla luce delle scelte dell’esecutivo, sulla certificazione verde restano almeno due questioni aperte: la prima è che, prima o poi, di trasporti pubblici e di scuola bisognerà parlare. E un conto è dire che la certificazione serve per andare al cinema o partecipare a un convegno, un altro dire che serve per prendere il bus o la metropolitana tutti i giorni, o per dormire nello studentato delle università.
Nei primi due casi l’opzione di fare il tampone invece che il vaccino è reale; negli altri no. Un’altra questione è la possibilità (remota, ma pur sempre possibile) che un vaccinato si infetti: la circolare del ministero della Salute del 21 maggio prevede una serie di regole, ma si dovrebbe contemplare pure una sospensione del certificato verde che, per il momento, non sembra essere prevista.
L’obbligo di vaccino per categorie di lavoratori
Il dibattito sulla certificazione verde non è comunque sovrapponibile con la discussione sull’obbligatorietà del vaccino per alcune categorie di lavoratori. Per il momento, l’unico obbligo è quello previsto dalla legge 76/2021 e coinvolge “gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali”. L’obbligo è temporaneo, legato all’emergenza sanitaria e alla completa realizzazione del piano vaccinale. Nel caso di condizioni cliniche documentate che espongano al rischio per la salute del lavoratore, la vaccinazione può essere omessa o differita. La ragione sembra ovvia: garantire l’erogazione del servizio di cura e di assistenza in condizioni di sicurezza per il lavoratore e per il paziente.
La questione è se estendere l’obbligatorietà del vaccino anche ad altre categorie, con il fine di tutelare il lavoratore. Il settore dell’istruzione, dalle scuole materne fino alle università, sembra un ovvio candidato. Così come il personale in servizio sui mezzi pubblici o quello dei punti vendita del commercio al dettaglio.
Qui valgono alcune considerazioni: la prima è che l’obbligo vaccinale non è affatto una novità, anzi. La vaccinazione antitetanica è obbligatoria per una varietà di lavori (dagli operai addetti alla fabbricazione della carta e dei cartoni ai lavoratori del legno, metallurgici e metalmeccanici, fino al personale delle ferrovie e ai marittimi); quella antitubercolare per il personale sanitario e gli studenti di medicina. La seconda annotazione è che, anche se sembrano già lontane le discussioni su quali fossero le categorie più a rischio e il conteggio giornaliero dei morti, il rischio di ammalarsi di Covid-19 è differente per differenti categorie di lavoratori e l’Inail ha già prodotto una stima delle diverse classi di rischio che dovrebbe servire come punto di partenza per decidere cosa fare. Non c’è molto tempo, perché le pressioni si moltiplicano e il rischio del fai-da-te è molto concreto. Non gioverebbe, in una situazione già assai confusa.
fonte: lavoce.info