Se ci facciamo caso, da qualche tempo il TSO è diventato il metro di misura della follia. Non più un provvedimento sanitario disposto dai medici che, ricordiamolo, devono essere due, chi propone e chi convalida ed entrambi del servizio pubblico, così come dispone la legge 180 che lo pone al centro del suo dispositivo insieme alla chiusura dei manicomi.
Nel discorso pubblico attuale il Trattamento Sanitario Obbligatorio rimanda invece allo status di folle, anzi di matto nei confronti del quale non si può che allontanare, contenere, legare, isolare, ricoverare in modo coatto per sedarne le bizzarrie comportamentali e sopirne le manifestazioni di scompenso psichico. Nei giorni tra il 20 e i 22 luglio il TSO è comparso tre volte almeno sulla stampa in tre casi affatto diversi.
Nel primo, un emendamento al Recovery Fund lo trasforma di fatto in diagnosi medica prescrivendo che chi dovesse riceverne uno andrà segnalato all’autorità di polizia in quanto persona malata non adatta a possedere e usare un’arma. Come sappiamo si tratta di una disposizione che non avrà corso per la sua incoerenza con la legge dello stato che ne norma le condizioni ma ciò non toglie che qualcuno, nella posizione del deputato legislatore, ha ben pensato di difendere i possessori ‘sani’ di armi dai matti pericolosi che, come si sa, non pensano ad altro che ad acquistare e sparare al prossimo… E che a ispirare l’emendamento non siano ragioni che hanno a che fare con la medicina ma con l’uso delle armi non ci può consolare perché denota il livello di incompetenza e di rappresentatività interessata della nostra classe politica.
Nel secondo caso, un esponente della suddetta classe, un assessore al comune di Voghera, ha sparato a una persona per strada uccidendola. In questo caso un portatore ‘sano’ di armi, che, a quanto se ne sa, non ha mai ricevuto cure psichiatriche e che è un convinto detentore di pistole, ha ammazzato in piazza un uomo che lo avrebbe importunato, esercitando così un suo diritto di vita e morte su un altro essere umano che, il caso vuole, fosse una persona sofferente di cui i parenti, sgomenti, raccontano che avesse problemi psichiatrici che l’avevano condotto a un ricovero in TSO. I familiari, attoniti, dichiarano che si trattava di una persona che andava curata e non uccisa, una cruda verità che, vista dalla parte politica a cui appartiene l’assessore assassino, è bellamente ignorata.
Per uno dei paradossi dell’esistenza, mentre un deputato invoca il bando pubblico e la segnalazione all’autorità prefettizia e di polizia degli uomini e donne che ricevono un TSO per poter far circolare armi con maggior sicurezza per tutti, un assessore che l’arma la detiene e la usa, spara ammazzandolo un uomo che un TSO aveva ricevuto perché ammalato, sofferente e bisognoso di cure.
A concludere l’orribile sequenza ravvicinata di notizie, un paziente napoletano, ricoverato in TSO in un ospedale della sua città muore in circostanze ancora da chiarire nel luogo della cura per eccellenza, affidato al personale sanitario proprio per trattare gli aspetti acuti del suo malessere. In questo caso le cure erano somministrate, forse in eccesso se si trattava di soli farmaci e non di ascolto e accoglienza, eppure il regime di ricovero coatto non è servito a restituire la persona alla sua vita normale ma a segnare il contesto della sua morte.
Tre casi diversi dunque in cui il discorso sulle cure e la sofferenza mentale viene oscurato dalla cronaca, nera in due dei casi descritti, riportandoci tutti indietro nel tempo, esaltando gli aspetti sociali e non quelli personali della sofferenza mentale, allontanando da qualsiasi possibile comprensione o immedesimazione e trasformando un discorso sulla salute in una questione di ordine pubblico. Invocato, mancato o, nel caso napoletano, degenerato, il Trattamento Sanitario Obbligatorio occupa uno spazio mediatico che non corrisponde al suo reale utilizzo che non va oltre l’1% dei tanti casi che in un anno il sistema di salute mentale pubblica, pur in affanno come non mai, tratta con risultati clinici ed esistenziali di rilievo.
È tornato il tempo di riaprire un discorso pubblico e collettivo sulla salute mentale, sottrarlo all’incombente e sempre più esplicito ritorno alla pericolosità dei folli e porre i riflettori sulle distorsioni e gli abusi di cui anche la psichiatria si macchia nella sua versione sciatta e violenta. Non da meno ci tocca segnalare tutti quei casi e tutte le circostanze in cui per una improvvida sineddoche il TSO viene a sostituire un provvedimento sanitario con le motivazioni che lo determinano e a condensare in un acronimo lo status di malato psichiatrico e la sua sorte di escluso.
Tutte le volte che al convincimento si sostituisce materialmente o simbolicamente l’imposizione violenta di un essere umano o dello stato sulla persona si creano le condizioni per un deficit di equità, giustizia e democrazia. Si pensi, in conclusione, a un altro caso esemplare che ha avuto ampia rappresentazione di stampa qualche mese fa, quello del liceale marchigiano a cui è stato effettuato un TSO perché in classe, in piena pandemia, rifiutava di indossare la mascherina. Un intero sistema fatto di istituzione scolastica, famiglia, forze dell’ordine, sanità, apparato giuridico dello stato e, non ultimo, apparato mediatico, va in cortocircuito nel momento in cui la scorciatoia del ricovero coatto obnubila tutti e di tutti assorbe le energie. Una lezione da meditare.
Antonello d’Elia è Presidente di Psichiatria Democratica
fonte: Quotidiano Sanitò Lettere al Direttore “Gli equivoci del TSO nella cronaca di questi ultimi giorni”
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