Non so se la visita di Draghi e Cartabia avvenuta nel carcere di Santa Maria Capua Vetere a oltre un anno dalla mattanza (e già questo dice molto) sia il segno di un cambiamento. C’è da augurarselo davvero perché il cambiamento – che riguarda tutto il sistema carcere (sono almeno 17 i procedimenti penali che hanno per oggetto abusi, maltrattamenti e torture dal 2011 a oggi – fonte Antigone) – richiede uno sforzo e un impegno che vanno ben oltre alle parole e alle promesse, ben oltre all’amnistia e all’indulto (più che mai necessarie) e che attengono a un’analisi dell’essenza del carcere, ovvero per citare Aristotele a “ciò per cui una certa cosa è quello che è, e non un’altra cosa”. Insomma riguardano la natura di un’istituzione “fortificata” e isolata dove da una parte sono rinchiuse migliaia di persone (53 mila oggi i detenuti in Italia) tutte costrette a vivere in stato di minorità e dall’altra sono state incaricate altrettante migliaia di persone (quasi quarantamila oggi gli agenti di polizia penitenziaria) a osservare, programmare e governare le giornate, le settimane, i mesi e gli anni. Detenuti i primi, detentori gli altri.
In definitiva, è il senso e il compito che è stato assegnato a una istituzione come il carcere che costruisce il carcere stesso, ed ancora è il senso e il compito che è stato assegnato a priori alle persone che in carcere ci vivono e ci lavorano (detenuti e detentori) che determina poi le loro azioni. Cosa, come è noto, ben evidenziata da Zimbardo nel 1971 a Standford grazie al suo famoso esperimento sul comportamento delle persone in base al gruppo di appartenenza e al ruolo assegnato. Esperimento ancora ignorato. Purtroppo. E così, come ciechi che pur vedendo non vedono (per dirla con Saramago) vediamo persone agire, le classifichiamo in buone o cattive, in mele marce o mele buone, senza chiederci ad esempio cosa sia accaduto prima della mattanza in quel carcere campano, o meglio che rapporto era stato istituito nel tempo passato e in forza di quale regolamento, compito e ruolo quelle persone si relazionavano tra loro. E non soltanto all’interno del carcere di Santa Maria Capua Vetere, ma in tutte le carceri italiane.
Ecco dunque che per capire (e quindi cambiare e correggere e non a parole o con passerelle adatte solo per il momento e l’eccezionalità) occorre tornare all’essenza, a quel cosa è il carcere, cosa fa il carcere, cosa succede lì, qual è la vita dei detenuti. Domande che si era posto nel 1971 Michel Foucault quando diede vita con Sartre e Deleuze al Gruppo di informazione sulle prigioni (Gip). Domande che possono cominciare a trovare una prima risposta guardando la divisione che esiste all’interno del carcere tra due realtà opposte tra loro: la realtà delle guardie e la realtà dei ladri, divisione che si articola all’interno di un unico codice che alla fine è uguale per tutti. Sintetizzo al massimo questi pensieri, frutto di tanti studi sull’istituzione totale: il sistema deve funzionare e per funzionare si sviluppa in un gioco di collaborazione, favori, scambi, benefici, vantaggi e meccanismi di adattamento.
Perfetto equilibrio in un sistema gerarchico e poliziesco dove qualcuno comanda più di un altro e che si realizza sia tra detenuti e guardie, e sia tra detenuti e detenuti. Un equilibrio dove c’è una regola condivisa con le buone e con le cattive. Violenza simbolica (dolce e meno dolce, come aveva analizzato Weber nel descrivere lo Stato), ma sempre violenza. Con o senza episodi o mattanze tipo Santa Maria Capua Vetere.
Senza sminuire la gravità delle violenze da parte di alcune centinaia di agenti contro i detenuti nel reparto Nilo, al contrario ricordando che oltre un anno fa, negli stessi giorni del pestaggio di Santa Maria Capua Vetere, in altre carceri italiane ci sono stati 13 detenuti morti (caso addirittura archiviato), vorrei che insieme qui osservassimo la vita dentro queste istituzioni attraverso alcune fotografie pubblicate nell’ultimo numero di Voci di dentro e che sono immagini di ordinaria quotidianità e dove si vedono persone nei cosiddetti passeggi, all’interno delle loro celle e nei corridoi. Le immagini sono state scattate nel luglio del 2015 al Don Bosco di Pisa (ma oggi in alcuni reparti è anche peggio) da Veronica Croccia e Francesca Fascione, e fanno parte di un reportage fotografico della Camera penale di Pisa “Come sabbia sotto al tappeto” in collaborazione con la direzione della casa circondariale “Don Bosco”, patrocinato dall’Unione delle Camere Penali, dal Comune di Pisa e dall’Ordine degli Avvocati e realizzato da Serena Caputo, segretario della Camera penale (promotrice del progetto).
Foto scattate in un giorno qualunque e che si possono scattare in qualunque altro giorno e in tantissimi carceri. Soffermatevi un momento sulla foto dove si vedono le mani di un uomo che passano attraverso le sbarre sostenendo due piatti di plastica, quelli che solitamente usiamo per picnic o altro. Solo un cane, forse nemmeno un cane si tratta così.
Totalmente dipendente da qualcun altro, da chi ha deciso il momento della sbobba, da chi ha così organizzato quella parvenza di vita. Oppure soffermatevi sulle aree passeggio in quelle vasche di cemento o sulla cella col wc a vista. Immagini d’altri mondi e d’altri tempi. Altro che “detenuti troppo liberi” come li definisce Milena Gabanelli: le sarebbe sufficiente un giro all’interno, al giudiziario, ad esempio, tra tossicodipendenti arrestati e persi nel nulla, per buttare alle ortiche quell’articolo fatto solo con il cinismo della statistica. E per capire che cosa è e cosa fa un carcere e a chi.
Carcere “per rendere i detenuti disciplinati e docili” scriveva Foucault nel suo magistrale Sorvegliare e Punire. Forse sbagliando, da un certo punto di vista, come ci ha mostrato Kubrick in Arancia Meccanica. Perché la violenza, dolce o meno dolce che sia, e perché la divisione tra chi comanda e chi ubbidisce, e tra chi è e chi non è, o tra chi ha e chi non ha, come aveva detto Franco Basaglia… perché tutto questo costruisce e dà il senso al carcere, è la sua essenza. Perché tutto questo costruisce un luogo al quale nelle tante epoche della nostra storia umana, di volta in volta, si è cercato di dare un nuovo senso e una nuova funzione in aggiunta alle precedenti. Un luogo che non può avere senso, e non ha alcuna ragione di esistere.
Un luogo per il quale non ci sono, non possono esserci, passerelle, buoni propositi o promesse di cambiamento a meno che a monte non ci sia una rivoluzione culturale e una visione meno ideologica o populista. Una rivoluzione che passi prima nel far apporre un codice identificativo sulle divise e sui caschi degli agenti e poi ad eliminare tout court dal carcere la stessa polizia, idea peraltro già ipotizzata negli anni della riforma del 1975, portando all’interno non agenti, ma maestri, libri, sapere, lavoro. Senza coercizioni soprattutto ed eliminando l’idea del forgiare e punire attraverso la sottomissione (la cosiddetta pedagogia nera di D.G. Moritz Schreber) così cara a chi vuole far marcire la gente in galera. Senza più quella extraterritorialità su cui si basa la fortezza del carcere. Senza media e penale ben alleati nel nascondere, travisare e costruire la loro patologica e ansiolitica arealtà.
Francesco Lo Piccolo *Giornalista, direttore di “Voci di dentro”
fonte: huffingtonpost.it, 17 luglio 2021