Le poche centinaia di pagine che danno forma al nuovo libro di Benedetto Saraceno Un virus classista (Edizioni aplhabeta Verlag, 2021) sono un affresco esaustivo dei problemi socio-sanitari affrontati nella crisi del Covid19 e allo stesso tempo un preziosissimo biglietto da visita per l’approfondimento ulteriore di quelli già esposti.
Il punto di partenza è l’evidenza delle carenze sanitarie che il virus ha fatto emergere, ovvero il definitivo e impietoso fallimento di un modello assistenziale che fa della residenzialità il perno della cura all’interno di un sistema sempre più incagliato nei profitti del privato. Il fatto che nella sola Europa la metà delle morti per Covid19 siano avvenute in strutture di accoglienza e cura a lungo termine riporta sul tavolo della discussione il problema dell’istituzione e della sua funzione assistenziale, proprio come era già accaduto 40 anni fa con l’opera di Franco Basaglia.
Se pensassimo che all’epoca lo scardinamento dell’istituzione manicomiale, culminato nei fatti nella legge n. 180/78, abbia avuto come unico orizzonte d’azione quello psichiatrico appunto, rimarremmo problematicamente miopi di fronte al nodo principale combattuto dallo stesso Basaglia: la questione dell’istituzione come luogo di separazione sociale, come confine valoriale tra le vite dei soggetti e come soglia di dignità.
È nella carneficina di anziani presenti nelle RSA, nell’altissimo numero di contagi verificatosi al loro interno, nelle strutture deputate a occuparsi della long-term care e in generale in tutte le lungodegenze che oggi è quanto mai urgente riattualizzare la critica istituzionale, per elevare ancora una volta i diritti e i bisogni a vero motore della presa in cura, come tra l’altro prescrive la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (2006) che all’articolo 19 recita: “le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere su base di uguaglianza con altri il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione”.
Ma cos’è oggi quella che potremmo definire neoistituzionalizzazione? Si potrebbe rispondere alla domanda parafrasando le parole di Francesco Maisto, garante dei detenuti nelle carceri milanesi, citato dallo stesso Saraceno: con la crisi sempre più incontenibile del welfare, la gestione della devianza non è più solo di tipo custodialistico e correttivo, ma anche e soprattutto finalizzata ad “assegnare destini sociali”.
Le periferie non hanno più una mera collocazione geografica ma rappresentano veri e propri circuiti dell’abbandono. Sono abbandonati i carcerati in prigioni sovraffollate e con dubbi percorsi di riabilitazione, gli anziani in residenze-contenitore della loro senilità, le persone affette da dipendenze e malattie croniche, gli immigrati in ricerca di stabilità e integrazione, e l’indigente in generale. Così, se l’internato delle istituzioni totali di cui parlava Erving Goffman in Asylums aveva come massima aspirazione della sua carriera istituzionale l’ubbidienza, l’apice di questi nuovi destini sociali è l’eterno transito nel circuito chiuso della cura periferica: d’istituzione in istituzione la persona viene rimbalzata in un circolo asfittico senza che possa mai trovare un reale riscatto per il suo futuro già scritto.
Già a luglio scorso, proprio qui su Scenari, Edoardo Greblo poneva lo stesso ordine di questioni con il testo Il virus è uguale per tutti? in cui metteva in luce l’asimmetria tra l’opinione diffusa secondo cui il Sars-Cov2 colpirebbe tutti indistintamente e una realtà dei fatti ben diversa, nella quale, a ben guardare, il virus non è affatto uguale per tutti. Fragilità e disuguaglianze si rivelano fattori alla base di questa discriminazione nella misura in cui non solo ostacolano il rispetto delle misure restrittive (abitazioni piccole, condizioni igieniche precarie, mancanza di assistenza e cure domiciliari) ma anche espongono maggiormente alle conseguenze socioeconomiche che il virus comporta. Inoltre, sempre secondo Greblo, se la pandemia ha vistosamente richiesto la salvaguardia fisica e biologica dei corpi, ne deriva che sia stato enormemente sacrificato il valore della vita sociale e comunitaria. Ad aver fatto le spese di questa situazione è stato proprio chi era già privo di garanzie lavorative ed economiche che potessero sorreggerlo, o chi era già esposto a situazioni di vulnerabilità e solitudine.
Se la sola parola d’ordine di risposta a questi problemi è “residenzializzare”, non meraviglia che la mera preoccupazione delle politiche sanitarie sia la predisposizione del letto. Ci sono letti per i vecchi, per i matti, per i tossicodipendenti, per i disabili fisici e psichici. L’assegnazione dei letti rappresenta la panacea di tutti i mali sociali, il cuore pulsante della cura e il senso autentico dell’assistenza. Non c’è altro. Eppure – sottolinea lo stesso Saraceno – c’è una gran differenza tra “stare” e “abitare”: per stare non occorre rivendicare la proprietà di alcuno spazio perché lo si vive in modo astratto e impersonale; al contrario, l’abitare implica il possesso di un ambiente, la sua familiarizzazione e personalizzazione. E ancora, c’è una gran differenza tra modelli di cura sanitaria d’impostazione biomedica e modelli di assistenza socio-sanitaria che prendono in carico la persona nella complessità della sua storia. Per questo, se i processi di deistituzionalizzazione degli anni ’60 e ’70 hanno portato alla libertà dal manicomio, oggi, abbattuto il manicomio, l’opg e l’impianto custodialistico della cura, si tratta di guardare altresì alla libertà di: abitare, lavorare, relazionarsi, progettare. In sintesi: di godere di tutti i diritti e avere risposte per tutti i bisogni.
Affermava Franco Basaglia nelle Conferenze brasiliane:
Un individuo malato ha, come prima necessità, non solo la cura della malattia, ma molte altre cose: ha bisogno di un rapporto umano con chi lo cura, ha bisogno di risposte reali per il suo essere, ha bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche noi medici che lo curiamo abbiamo bisogno. Questa è stata la nostra scoperta. Il malato non è solamente malato, ma un uomo con tutte le sue necessità.
Invece il modello di assistenza istituzionale assolve l’essere uomo del malato in funzione esclusiva della sua malattia. Quello che resta è un corpo senza storia e senza vissuti da collocare in una dimensione superficiale della cura, dove di fatto continuano a essere ignorati quegli stessi bisogni che se non hanno cagionato la malattia, di sicuro hanno contribuito a cronicizzarla. Così, se nel caso dei “massivi internamenti” descritti da Foucault in Storia della follia la violenza dell’istituzione verso i corpi era di tipo contenitivo, oggi, negli scenari della neoistituzionalizzazione, la violenza che si consuma verso i corpi ha a che fare con la negazione della loro espressività. Cosa dicono? Di cosa hanno bisogno? Scrive Peppe Dell’Acqua: “(…) tutte le persone che vivono la loro faticosa diversità chiedono di restare nelle relazioni, di non essere catalogati “non autosufficienti” e archiviati, di non diventare invisibili, di essere sorretti per resistere fintanto che è possibile.”
È proprio in quel “possibile” che la presa in carico deve abbandonare i meccanismi dell’oggettivazione (il corpo-cosa) per divenire percorso di partecipazione e progettazione attiva del soggetto. Chiunque viva in qualsiasi forma il disagio dell’esclusione e della vulnerabilità sociale corre il rischio della riduzione oggettiva, che la psicopatologia fenomenologica, sulla scia del pensiero husserliano, ha a lungo studiato e che Basaglia ha a più riprese evocato nella sua pratica di epochè della malattia mentale. Da qualsiasi prospettiva si guardi il portatore di sofferenza, l’evidenza indiscussa è rappresentata dalla non esaustività dell’osservazione tecnica: rimane sempre un punto cieco al quale non è possibile arrivare, un quid che sfugge alla descrizione, e proprio “lì si attesta il dolore e lì sta il lavoro dell’inclusione sociale e della riabilitazione”.
Che fare dunque? Proviamo a dare tre risposte per giungere alla conclusione.
Innanzitutto, avere cognizione delle cause, che hanno tanto a che fare con lo smantellamento progressivo della medicina di prossimità e del welfare di territorio quanto col totale disinteresse dell’agenda politica (persino quella di sinistra degli ultimi anni!) verso la tutela di simili priorità sociali.
Poi promuovere cosiddetti processi di “democrazia dal basso”, all’interno dei quali il sanitario si estenda fino al sociale e il territorio si riappropri della salute dei suoi cittadini, a discapito di un privato che mette a punto scatoloni per categorie di scarto sociale. L’autore cita due esempi di buone pratiche in proposito. Il primo è la Casa della Salute, un modello di cura in cui i cittadini e il singolo utente vivono insieme sulla base delle risorse di cui dispone la comunità. Il secondo sono le Microaree di Trieste che, garantendo interventi sociosanitari a porzioni di territorio comprese tra i 1000 e i 2500 abitanti, rappresentano un paradigma di democrazia sociosanitaria partecipata: le persone non sono più soltanto pazienti, ma protagonisti attivi del proprio percorso di salute. Di questa presa in carico complessiva della persona fanno parte una pluralità di soggetti sia del pubblico che del privato, rappresentando una valida alternativa agli assetti del residenzialismo.
Infine scardinare le culture dell’emergenza, le stesse che esonerano i governi dall’avere piani d’azione preparati ed efficaci, allungando sempre più i tempi delle negligenze politiche verso temi di stringente importanza, come appunto quello di un potente welfare. Saraceno spiega che quando le emergenze si cronicizzano divenendo continue (come il caso dell’emergenza freddo, ricorrente ogni anno, per fare un esempio molto semplice) e facendo passare eventi sistemici per situazioni eccezionali, la società entra in un regime di panico che alimenta disinformazione e divisioni sociali. L’altro diviene non solo colui che può mettere facilmente a repentaglio la mia vita, ma anche colui che ostacola l’avanzamento della battaglia verso un nemico tutto ideologico, costruito volta per volta a tavolino, mentre l’unica vera sfida impellente e necessaria è quella del costituirsi realmente comunità di tutti i cittadini. Questo deve essere acquisito come principale insegnamento che la pandemia ci ha lasciato, tornando con coraggio a porci la domanda sul futuro.
fonte: Mimesis