È stata molto diversa da quella di vent’anni fa la Conferenza Per una salute mentale di comunità che si è conclusa il 26 giugno, promossa come la prima dal ministero della salute. La Conferenza del 2001, voluta dalla ministra Bindi e finita in mano al ministro Veronesi, era stata un flop, e aveva inaugurato vent’anni di degrado dei servizi di salute mentale. Questa seconda Conferenza potrebbe aprire una fase nuova, ma nubi pesanti si vedono all’orizzonte.
LA RELAZIONE DEL MINISTRO Speranza e quella della sua consulente Dirindin hanno dato indicazioni politiche chiare: rafforzare l’assistenza territoriale e la presa in carico integrata delle persone con sofferenza mentale, aprire un confronto con le Regioni per superare l’uso della contenzione meccanica, reperire da subito nuove risorse secondo modalità che il ministro ha indicato pur senza quantificarle, in attesa di un possibile uso di fondi dal Piano per la ripresa, il Pnrr (ne ha riferito Dell’Aquila su il manifesto del 27 giugno). Il messaggio forte è stato che occorre non solo rimediare alla carenza di risorse ma “ripensarle e riallocarle in termini economici e culturali” (Dirindin) con un’attenzione “all’innovazione organizzativa e gestionale perché non è sensato mettere carburante in un’auto in panne”, come ha detto Fabrizio Starace del Consiglio superiore di sanità. Altro dato importante la partecipazione: 130 relatori nelle otto sessioni, oltre tremila visualizzazioni, tra i relatori non solo operatori dei servizi ed esperti di università e istituti di ricerca ma anche utenti, familiari, operatori e volontari di cooperative e associazioni.
QUESTA SCELTA di coinvolgere tanti e diversi attori ha probabilmente contribuito alla scelta di non partecipare da parte della Società italiana di psichiatria (Sip), la più antica società scientifica del campo psichiatrico, dove oggi si contano almeno ventiquattro società scientifiche accreditate. Alcune di queste, e diversi aderenti alla Sip, sono intervenuti alla Conferenza così come società, ordini professionali e associazioni di psicanalisi, psicologia, psicoterapia, infermieristica, servizio sociale, tecniche della riabilitazione ecc. Il campo della salute mentale infatti non è più solo psichiatria, e tanto meno lo è quello della salute mentale di comunità. Ma se il monopolio del discorso psichiatrico sulla sofferenza mentale è finito da tempo, non altrettanto si può dire del potere istituzionale della psichiatria, almeno finché i servizi pubblici restano più psichiatrici che di salute mentale.
LA DIFFERENZA non sta nel nome (indicato dalla legge) ma nei modelli organizzativi che svelano l’orientamento. È psichiatrico un sistema di servizi incentrato sul posto letto ospedaliero, cioè sul servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) concepito, contro la legge “180”, come reparto specialistico per ricoveri di breve durata, a cui seguono ricoveri di durata media in altri reparti psichiatrici di ospedale o di clinica, day hospital e visite ambulatori per il controllo dei farmaci e i colloqui. L’esito di un tale sistema sono i ricoveri in istituti, cliniche e comunità che escludono dalla vita. Questo è il modello lombardo-veneto ormai diffuso, qui il farmaco è la prestazione chiave, che mette lo psichiatra in cima alla piramide degli operatori. Quando i dirigenti della Sip si dichiarano portatori di innovazione è di questo che stanno parlando, dei farmaci, in parte nati negli ultimi anni dai potenti investimenti di Bigfarma. Peccato che questa innovazione, su cui manca – lo ha ripetuto Silvio Garattini nella Conferenza – un’informazione indipendente, sia usata dentro un modello organizzativo che risale agli anni ’50, posto letto, farmaco, ambulatorio, con alle spalle allora i grandi contenitori manicomiali e oggi contenitori più piccoli dello stesso tenore.
LE PSICOLOGIE, i cui professionisti sono cresciuti in modo rilevante, stanno cercando di sottrarsi alla relazione soffocante con questo modello di servizio psichiatrico, e cercano di creare, anche grazie a questi tempi di Covid, un proprio territorio specifico, separato. Potrebbero invece trovare spazio nel sistema di comunità, fondato su centri accoglienti 24 ore, sul lavoro nelle abitazioni e nei contesti di vita delle persone che stanno male e che prendono anche farmaci, che non sono però l’unica né la principale risposta poiché i centri hanno costruito un circuito di risorse, istituzionali e non, che aiutano le persone a trovare casa, lavoro e spazi di vita.
GLI ORGANISMI internazionali, la ricerca, le leggi, indicano che le risorse vanno allocate in questa direzione, ma non da oggi certe lobbies e certa politica remano contro. L’ultimo episodio è la mozione approvata all’unanimità dalla Camera il 16 giugno, prima firmataria Beatrice Lorenzin, ministra della salute con Forza Italia, oggi nel Partito democratico. Per Lorenzin e il sottosegretario alla salute Costa (gruppo del presidente Toti) che l’ha approvata a nome del governo, questa mozione ha l’ambizione di “disegnare una visione per un nuovo piano nazionale salute mentale”. In realtà c’è tutto fuorché una visione. Si tratta di un patchwork in 32 punti che include le solite inutili campagne contro lo stigma (punto1); l’offerta di “fino a dieci sedute dallo psicologo ai giovani depressi per via della pandemia” (p.5); l’incremento dei posti letto pubblici per adulti e minori “per rispondere ai quadri acuti con luoghi di ricovero specialistici” (p.14); non meglio identificate “iniziative per investire sull’innovazione farmacologica, riabilitativa e psicoterapica”(p.17); telepsichiatria e telepsicologia infine per coloro che per ragioni imprecisate “altrimenti avrebbero difficoltà ad accedere ai servizi”(p.19).
fonte: Il Manifesto 30.6.2021