Sempre più case popolari vengono assegnate a famiglie di immigrati. Perché in media hanno redditi più bassi e sono più numerose. Ma così si crea malcontento in varie fasce dell’opinione pubblica italiana. Eppure, anche questa è una forma di integrazione.
Come si formano le graduatorie
L’ex istituto autonomo case popolari di Bologna, ora Acer, prevede che nel giro di due anni la metà degli alloggi assegnati dal comune con ogni nuovo bando sarà affittata a famiglie non italiane. Già ora costituiscono più della metà di quelle che concorrono ai bandi.
Quella del capoluogo emiliano rispecchia, seppure con proporzioni diverse, situazioni registrate anche in altre aree urbane del paese con una forte presenza di immigrati, soprattutto provenienti dai paesi extra Ue. D’altra parte, secondo alcune rilevazioni la percentuale di stranieri che vive in affitto è di poco inferiore al 65 per cento contro meno del 20 per cento delle famiglie italiane.
Per la formazione delle graduatorie, nella valutazione dello stato di necessità di una famiglia hanno un peso rilevante il reddito (meno reddito più punti) e il numero dei componenti (più componenti più punti). Mediamente, le coppie di immigrati hanno più figli e redditi più bassi di quelle italiane, dunque si piazzano nelle posizioni più alte delle graduatorie.
In campagna elettorale l’assegnazione delle case popolari agli immigrati è un tema caldo. Per i partiti di destra e conservatori si tratta di un argomento di facile presa non solo nei confronti delle tante famiglie italiane che da anni non riescono ad averne una, ma anche di quella fetta, non trascurabile, di popolazione che non vede di buon occhio la presenza di immigrati nel nostro paese.
Flussi e stock
Per contro, i partiti di sinistra rispondono sulla base di due incontrovertibili fatti: a) quella per la casa è una delle politiche più trascurate nel nostro sistema di stato sociale; b) considerando l’intero patrimonio, la percentuale delle case popolari assegnate a famiglie italiane è nettamente maggioritaria.
È difficile però che le due affermazioni riescano a erodere il consenso che le forze politiche di destra possono coagulare sulla parola d’ordine “le case popolari prima agli italiani”.
Il patrimonio di alloggi di proprietà pubblica è sicuramente inferiore al fabbisogno. Un dato complessivo nazionale non esiste, ma per dare un’idea basta considerare che in 54 comuni dell’Emilia-Romagna, con 24 mila nuclei in graduatoria, gli alloggi assegnati nel 2015 sono stati poco più di 500.
Sarebbe pertanto auspicabile promuovere gli investimenti necessari per accrescere in modo consistente il numero delle case popolari con la realizzazione di nuovi alloggi, ma anche destinando risorse più consistenti al recupero di tutte quelle abitazioni che non possono essere assegnate a causa del cattivo stato di conservazione. Ma pur supponendo che ciò possa, miracolosamente, succedere, la composizione dei nuovi inquilini tra famiglie di immigrati e famiglie italiane non cambierebbe di molto se i criteri di formazione delle graduatorie rimangono quelli di oggi.
Quanto al fatto che nelle case popolari risiedano oggi molte più famiglie italiane che immigrate, tralasciando l’incongruenza metodologica di confrontare un dato di flusso con uno di stock, è una constatazione che interessa ben poco alle persone in attesa dell’assegnazione. Per chi aspetta una casa non conta il passato, ma ciò che succede oggi e che succederà domani: sempre più immigrati “portano via la casa” agli italiani. Peraltro, l’argomento della prevalenza delle famiglie italiane nello stock di alloggi è destinato a perdere vigore con l’aumento della velocità di ricambio degli assegnatari, che sarà più elevata nelle regioni in cui è più alta la percentuale degli attuali inquilini molto avanti con l’età o dove si è deciso di accelerare il turn over, per esempio abbassando i livelli dei parametri da cui dipende la permanenza nell’alloggio.
Tecnicalità e politica
Preoccupati per le conseguenze elettorali, i partiti di sinistra sono alla ricerca di parametri per la formazione delle graduatorie più favorevoli alle famiglie italiane, che possano compensare il vantaggio relativo che il reddito e il numero di componenti attribuiscono alle famiglie di immigrati.
Finora sono state individuate due situazioni che potrebbero aumentare le probabilità delle famiglie italiane: l’anzianità di attesa in graduatoria e il numero di anni di residenza nel comune che emana il bando. In entrambi i casi, si attribuirebbe un punteggio crescente con il trascorrere del tempo, richiedendo anche un numero minimo di anni residenza.
L’effetto dell’adozione di questi criteri è però destinato ad attenuarsi negli anni. Con il trascorrere del tempo, infatti, un numero crescente di famiglie di immigrati maturerà le anzianità che garantiscono i punteggi progressivamente più elevati.
Potrebbe allora rivelarsi più utile un’operazione di chiarificazione politica: affermare esplicitamente che la possibilità per gli immigrati di concorrere all’assegnazione degli alloggi pubblici è, al pari della copertura delle altre prestazioni dello stato sociale, una componente delle politiche di welfare che hanno anche finalità di integrazione di coloro che vivono legalmente nel nostro paese. È difficile prevedere il consenso che potrebbe suscitare questa operazione, ma andrebbe alla radice del problema; e sfiderebbe quelle forze conservatrici che non si dicono contrarie all’integrazione degli immigrati regolari a dire se l’assegnazione delle case popolari è o no uno strumento di quell’integrazione.
Fonte: http://www.lavoce.info/archives/51470/casa-popolare-vuol-dire-integrazione/