PNRR e anziani non autosufficienti. di Emmanuele Pavolini

Il Piano si pone obiettivi ambiziosi e indica una progettualità di medio periodo di ampio respiro, che in Italia è stata assente per decenni in questo campo. I punti di forza e le criticità.

Il PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) rappresenta e probabilmente rappresenterà uno dei principali cardini attorno a cui si struttureranno in questo decennio le politiche pubbliche in Italia. In queste righe si riflette su quanto previsto nel campo del sostegno agli anziani non autosufficienti.

Gli interventi a favore di anziani fragili compaiono in tre delle sei missioni del Piano.

  • All’interno della missione 1 sulla digitalizzazione, il Piano prevede un investimento su connessioni internet veloci (banda ultra-larga e 5G) per molte strutture pubbliche, incluse tutte quelle sanitarie (telemedicina e assistenza da remoto, piattaforme elettroniche e cartelle cliniche elettroniche, etc.).
  • All’interno della missione 6 sulla salute molti interventi beneficeranno gli anziani, anche se non sempre questo segmento della popolazione viene nominato esplicitamente. 7 miliardi del Piano saranno dedicati a: a) l’istituzione di “Case di Comunità”, in cui si intende prestare particolare attenzione ai malati cronici (in gran parte anziani) (2 miliardi); b) il potenziamento dell’assistenza domiciliare, con l’obiettivo di prendere in carico entro il 2026 il 10% della popolazione anziana (65+) (4 miliardi); c) lo sviluppo delle cure intermedie, tramite la realizzazione di “Ospedali di Comunità” (1 miliardo).
  • Nel campo della missione 5 “inclusione e coesione sociale” vengono proposti non solo interventi specifici a vantaggio degli anziani fragili e non autosufficienti ma anche vere e proprie riforme. Per quanto riguarda le seconde, il Piano prevede l’elaborazione di normativa riguardante il “sistema degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti”, da adottare entro la primavera del 2023, finalizzata alla individuazione di livelli essenziali delle prestazioni. Per quanto, invece, concerne gli interventi vengono stanziati 0.5 miliardi per “la prevenzione dell’istituzionalizzazione degli anziani non autosufficienti”. In particolare, la linea di attività più corposa di tale progetto (oltre 300 milioni) è finalizzata a finanziare la riconversione delle RSA e delle case di riposo per gli anziani in gruppi di appartamenti autonomi.

Come il lettore può già dedurre da questa schematica descrizione dei principali interventi e riforme previste, il Piano si pone obiettivi ambiziosi e indica una progettualità di medio periodo di ampio respiro (anche sotto il profilo delle risorse), che in Italia è stata assente per decenni in questo campo.

Quale giudizio dare complessivamente di quanto previsto dal Piano? Partiamo dai punti di forza, che sono sostanzialmente quattro.

I punti di forza

Il primo riguarda il buon livello di investimento complessivo e di modernizzazione del sistema delle cure socio-sanitarie per gli anziani. Le voci sopra riportate prevedono come minimo 4.3 miliardi direttamente indirizzati al sistema dei servizi per gli anziani non autosufficienti (4 miliardi sull’assistenza domiciliare e 0,3 miliardi per la riconversione delle RSA), a cui va aggiunta una parte consistente delle risorse previste per gli altri investimenti sopra riportati, dato che gli anziani non autosufficienti e fragili saranno fra i principali beneficiari di tali interventi.

Il secondo punto di forza è la forte attenzione al potenziamento dei servizi domiciliari. Voler coprire entro il 2026 il 10% degli anziani è un obiettivo ambizioso e apprezzabile: attualmente circa il 6-7% degli anziani beneficia di questo tipo di intervento. Porsi l’obiettivo del 10% vuole dire fare un bel passo avanti.

Il terzo aspetto molto positivo è quello di voler fissare livelli essenziali delle prestazioni, che sono a tutt’oggi assenti nel campo dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Se si guardano i dati sulla copertura dei servizi domiciliari, diurni e residenziali in Italia, vi è una fortissima differenziazione fra regioni, con una netta linea di divisione fra Nord e Sud, a cui se accompagna una ulteriore fra aree urbane e aree rurali ed interne. L’unico vero livello essenziale (inteso come universalistico) è rappresentato non da un servizio, ma da un trasferimento monetario: l’indennità di accompagnamento, che viene erogata dall’INPS solo sulla base del bisogno di cura.

Infine, va salutata molto positivamente la spinta verso una diversificazione degli interventi residenzialiIn Italia, vi sono esperienze interessanti volte a introdurre un “anello intermedio” nella residenzialità fra interventi fortemente socio-sanitari come le RSA e quelli nel domicilio della persona non autosufficiente. Tuttavia, non si è sviluppata fino ad ora una strategia nazionale complessiva, che sostenga la diffusione di queste esperienze sul territorio nazionale in maniera adeguata. In questo siamo indietro rispetto a molti altri paesi europei. Lo SPI-CGIL ha da pochi mesi concluso una ricerca di mappatura su queste esperienze intitolata “Pratiche ed Esperienze di Sostegno all’Abitare per gli Anziani Fragili in Italia”. Parliamo di esperienze come il Gruppo appartamento organizzato presso la Fondazione Casa Serena di Perugia o l’esperienza del Centro Sociale di Lastra a Signa in Toscana. Ben venga, quindi, la volontà del Piano di sostenere la diffusione di gruppi di appartamenti autonomi per persone anziane non autosufficienti.

Le criticità

Allo stesso tempo, il Piano nella versione attuale non presenta o non affronta adeguatamente quattro criticità, che è invece augurabile che vengano considerate nella fase di implementazione dello stesso e nel lavoro delle commissioni che si stanno occupando del tema (in proposito si legga il bell’articolo di Lidia Goldoni sempre su questo sito).

La prima riguarda il fatto che nel PNRR non viene prestata attenzione alla regolazione dell’indennità di accompagnamento. Questa mancata attenzione è sorprendente se si tiene presente una caratteristica tutta italiana nel campo degli interventi per la non autosufficienza degli anziani: con oltre 10 miliardi di spesa dedicati agli anziani tramite tale indennità, l’Italia si distingue nettamente da quasi tutti gli altri paesi dell’UE per il peso dei trasferimenti monetari rispetto ai servizi. L’Italia spende più della metà delle proprie risorse dedicate agli anziani non autosufficienti tramite un trasferimento monetario. In gran parte dell’Unione Europea le risorse vengono in prevalenza destinate a servizi. È quanto mai opportuno, pertanto, considerare dentro una riforma in questo campo il ruolo che dovrà giocare l’indennità, assicurando come minimo una maggiore integrazione fra questo strumento e i servizi. In questo momento servizi e trasferimenti corrono lungo binari totalmente paralleli, finendo per limitare l’efficacia complessiva dello sforzo pubblico in questo campo di bisogni. Si ricordi che la spesa complessiva per l’indennità in Italia ammonta a poco meno del 10% di quello che si spende annualmente per l’interno SSN.

La seconda riguarda il lavoro professionale di cura. La qualità della cura in un campo come la non autosufficienza è influenzata positivamente da miglioramenti tecnologici, ma continua a dipendere da quanto siano formati e trattati decentemente, in termini contrattuali, i lavoratori nel settore. L’OCSE ci ricorda che mediamente i lavoratori in questo settore (infermieri, assistenti, etc.) hanno nei paesi occidentali condizioni di lavoro peggiori di quelle dei loro colleghi che lavorano in ospedali. Si aggiunga a questa riflessione generale una specificità italiana: un mercato (spesso irregolare) delle assistenti familiari (impropriamente definite “badanti”). Molte stime indicano che il numero di tali figure è pari, se non superiore, al totale degli occupati nel SSN. Di nuovo, buona parte di questo mercato frequentemente irregolare è finanziato tramite l’indennità di accompagnamento. I due temi sono collegati e devono esser affrontati per poter tutelare meglio sia la dignità del lavoro in questo campo che la qualità della cura.

La terza criticità riguarda l’assistenza domiciliare. Se è meritorio applaudire ad un obiettivo di copertura del 10% degli anziani entro il 2026, occorre tenere presente come occorra ragionare non solo in termini di copertura ma anche di intensità della cura. Il Ministero della Salute ci ricorda nel suo Annuario Statistico del SSN come l’assistenza domiciliare integrata (ADI) abbia coperto nel 2018 il 6% degli anziani (buona notizia) per un totale di 18 ore all’anno (pessima notizia!!!). Praticamente si tratta di servizi infermieristici centellinati e offerti agli anziani non autosufficienti in situazioni particolarmente critiche (dopo un ricovero, nella fase terminale di una malattia, etc.) e non certo pensati come alternativa vera alla istituzionalizzazione. Occorrerà ragionare, quindi, anche in termini di obiettivi minimi in termini di intensità (ore/giorni) delle prestazioni.

L’ultima criticità riguarda la maniera in cui il PNRR affronta il tema delle strutture residenziali. Come già scritto, va salutato molto positivamente il fatto che il PNRR si ponga l’obiettivo di sostenere la de-istituzionalizzazione e lo sviluppo di quello che si è definito sopra l’“anello intermedio”. Si tratta di una battaglia di civiltà. Detto questo, è sorprendente che la volontà di sostenere l’espansione di tale “anello intermedio” venga inquadrata come alternativa e non come integrativa alla residenzialità socio-sanitaria. Le forme di residenzialità non strettamente socio-sanitarie coprono bisogni di cura in parte differenti da quelli coperti da RSA. Inoltre, le reti di supporto informale fra i “grandi” anziani (over 80) sono molto diversificate e siamo in presenza di un numero crescente di anziani con problemi seri di non autosufficienza e deboli reti familiari di supporto. Pensare di affrontare questi casi sostanzialmente smantellando il poco di strutture residenziali presenti in Italia rischia di essere problematico. Non va infatti dimenticato che l’Italia ha già pochissima assistenza residenziale (di qualunque tipo). Si guardino la figura e la tabella sotto riportate. La Figura 1, tratta dall’OCSE fa vedere che l’Italia è il paese assieme alla Polonia con meno posti residenziali per numero di anziani. La seconda, tratta dall’Istat, indica come tale copertura è molto differente fra Nord e Sud Italia e che il livello di appropriatezza nel ricorso ai servizi residenziali è molto più alto ed adeguato in Nord Italia. Praticamente al Sud vi sono poche strutture residenziali e quelle che vi sono vengono spesso utilizzate male.

In conclusione, è auspicabile che la strategia per la residenzialità venga sviluppata lungo un doppio binario: quello del rafforzamento dell’anello intermedio; ma anche quello del rafforzamento di strutture come le RSA (investendo chiaramente, dove ve ne sia il bisogno, in ristrutturazioni che assicurino dimensioni piccole-medie di queste strutture). Altrimenti rischieremo che proprio i soggetti anziani più fragili (quelli che, a parità di bisogno socio-sanitario, non hanno una rete di cura familiare e risorse economiche adeguate – spesso concentrati al Sud) verranno lasciati indietro.

 

Tabella 1. Strutture residenziali per anziani in Italia: un confronto territoriale

Anziani in strutture residenziali(% ogni 100 anziani) % Anziani in strutture che sono anziani non autosufficienti (su 100 anziani in strutture residenziali)
Nord 3,2% 86%
Centro 1,5% 68%
Mezzogiorno 1,0% 57%

Fonte: Istat (anno 2018) Dataset “Ospiti dei presidi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari”

fonte: saluteinternazionale.info

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