La scelta del nuovo direttore del centro di salute mentale di Trieste e l’eredità della legge 180. Parla Alberta, la figlia del grande psichiatra. “Stanno uccidendo l’eredità di mio padre. Quando saranno distrutti gli ultimi baluardi che dimostrano l’efficacia della riforma Basaglia, sarà più facile rinnegare la sua rivoluzione culturale”. Alberta Basaglia è abituata a soppesare le parole. Nel bellissimo libro Le nuvole di Picasso ha raccontato la storia della sua famiglia e della sua diversità di ipovedente nella casa aperta ai matti. Dal padre Franco Basaglia e dalla madre Franca Ongaro ha ereditato la vocazione all’ascolto delle voci negate: per anni è stata bambinologa, psicologa delle donne e degli adolescenti, organizzatrice di un centro sulla violenza sessuale. Da vicepresidente della Fondazione dedicata ai suoi genitori, nell’isola di San Servolo, sente la responsabilità di custodire un pensiero che in molti vorrebbero cancellare. “Ho appena finito di realizzare la mostra virtuale Diritti al cubo. Gorizia epicentro di una rivoluzione. Mi sembra la risposta più adatta agli attacchi ricevuti dagli eredi di mio padre”.
Partiamo dal recente concorso di Trieste…
“Bisognava scegliere il nuovo direttore per uno dei centri di salute mentale della città. La valutazione dei curricula assegnava la vittoria a uno psichiatra formato a Trieste, conoscitore d’una modalità di cura che è figlia della Riforma Basaglia. La prova orale del concorso ha rovesciato la graduatoria, dando il primo posto a un anziano medico di Cagliari che è espressione di una cultura psichiatrica antitetica a quella triestina”.
Che cosa intende?
“Il servizio da lui diretto è stato segnalato dal “Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà” per la povertà di spazi aperti e per l’uso della contenzione. Aggiungo che la presidente della commissione che ha valutato i candidati è omogenea culturalmente ai metodi adottati dal professore sardo. Siamo molto lontani da quel modello friulano che anche di recente ha raccolto l’encomio dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”.
Un modello segnalato come esemplare per la cura della sofferenza psichiatrica…
“I centri di salute mentale diffusi nel territorio sono dei luoghi fisici che accolgono la malattia psichiatrica e offrono risposte diverse calibrate sull’intensità della sofferenza: senza mai arrivare alla contenzione. Questo modello rappresenta il passo successivo della rivoluzione basagliana. Ha dimostrato che la Legge 180 – in alcune regioni applicata solo in parte, in altre totalmente ignorata – se realizzata in tutte le sue articolazioni è una legge che funziona molto bene”.
Il concorso di Trieste segna l’occupazione da parte della psichiatria tradizionale di un simbolo dell’eredità basagliana…
“Viene il sospetto che si voglia mettere in pericolo l’intero sistema di cura psichiatrica di quella regione: in questo senso non sono incoraggianti le intenzioni manifestate dalla giunta leghista che vorrebbe ridurre il numero di Centri di salute mentale e il loro orario di apertura. In fondo stanno distruggendo ciò che dimostra la realizzabilità della riforma. La legge è stata accusata di essere astratta e ideologica e di non misurarsi con i problemi concreti dei matti. In Friuli hanno ampiamente dimostrato che questa accusa è infondata. Quando ne saranno cancellati gli ultimi baluardi, sarà più facile rinnegare la portata rivoluzionaria di quella battaglia culturale”.
In gioco non era solo un diverso approccio clinico, ma una concezione diversa della persona.
“Fu questa la rivoluzione di mio padre: mettere al centro non la malattia ma il malato. Sottrarre il matto al destino di emarginato, restituendogli i diritti negati. Fu una rivoluzione civile, oltre che medica. E mi sembra che oggi la destra leghista tenda a rifiutare i principi ideali che diedero vita alla riforma, ossia la cultura dei diritti. Una cultura attenta alla persona, alle sue sofferenze, ferma nel richiamare la responsabilità dell’intero corpo sociale che deve farsene carico. Pensi oggi a quel che succede con i migranti, con le donne e con i bambini, e con tutte le forme di diversità che vengono escluse, non incluse”.
Anche all’epoca la riforma fu molto avversata. Ne ricorda gli echi in famiglia?
“I miei genitori non si meravigliavano di tanta ostilità: si trattava di far cadere una barriera che teneva in piedi un sistema di potere. Non erano sicuri di vincere, erano sicuri però di fare una battaglia giusta. E gli attacchi anche virulenti venivano accolti come la conferma di un’azione che incideva in profondità”.
Spiega in questo modo anche l’acredine di oggi?
“Se si trattasse di un’eredità morta, non sarebbe bersaglio di nuove aggressioni. Di quante rivoluzioni di quegli anni oggi non si parla più? Quello basagliano fu un rovesciamento che ha lasciato un segno. Ed è con questa realtà che molte istituzioni sociali e politiche non vogliono fare i conti: accettare che la società sia composta da persone diverse. E che le persone psichicamente fragili debbano farne parte”.
Poco prima di morire suo padre disse di non escludere che i manicomi sarebbero stati ripristinati, anche più punitivi e chiusi di quelli precedenti.
“Si disse questo, ma aggiunse che l’importante era aver dimostrato che l’impossibile diventa possibile. “Abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in altra maniera”. E rispetto a questa conquista, non si può tornare indietro. Se curi un paziente psichiatrico legandolo a letto, stai scegliendo di farlo. E chi dice che legare sia l’unica soluzione praticabile mente. Sono tanti i luoghi in Italia dove si è dimostrato che è possibile praticare un approccio terapeutico non contenitivo. E rivendicare oggi l’uso della contenzione e dell’abuso dei farmaci come espressione di uno sviluppo scientifico costituisce palesemente un atto di malafede”.
Da figlia cosa prova?
“Una grande rabbia. I miei genitori si sono messi all’ascolto di chi non aveva voce. E ci sono riusciti, fino in fondo. Ora tutto questo rischia di essere cancellato. Il presidente della Società di Psichiatria, Massimo Di Giannantonio, ha difeso l’esito del concorso di Trieste. E ha anche aggiunto di essere come tutti un “basagliano”, però è arrivato il momento di superare quella ispirazione perché la scienza è andata avanti. Sarebbe curioso capire in che cosa consista “una pratica più avanzata” rispetto a un modello di cura ispirato dalla formula “la libertà è terapeutica”, oggi attuata dagli eredi di mio padre”.
Ha parlato con qualcuno di loro?
“Sì, sono in stretto contato con Franco Rotelli, Peppe Dell’Acqua, Giovanna Del Giudice, Maria Grazia Giannichedda. Sono loro che hanno realizzato la riforma di mio padre. E, a distanza di anni, continuano a presidiare le conquiste consolidate negli anni, nonostante i periodici attacchi. Li ho sentiti indignati. Si sta rischiando di tornare indietro non di anni, ma di secoli: la cura della sofferenza con pratiche autoritarie e disumane”.
Lei inaugura la mostra sui suoi genitori con una fotografia del manicomio di Gorizia. Suo padre ne rimase sconcertato…
“Mi ricordo che quando tornava a casa, dopo una giornata trascorsa nell’ospedale psichiatrico, doveva cambiarsi d’abito e farsi una doccia perché non ne sopportava l’odore. Mia madre parlava di uomini che sembravano larve, tutti con la testa rasata e lo sguardo perso. Si reggevano i pantaloni perché la cintura era ritenuta pericolosa, come erano pericolosi i lacci delle scarpe: trascinavano i passi, se non stavano sdraiati sulle panche. Docili ai comandi perché era stato ucciso tutto ciò che restava di umano”.
Una volta mi disse che in questi decenni hanno voluto fare di suo padre una favola bella…
“Sì, una sorta di padre Pio che ha liberato i matti dalle catene. Oppure il ribelle velleitario che chiude i manicomi infischiandosene delle conseguenze. La santificazione non serve a niente. E sono molto irritanti coloro che si professano basagliani per poi distruggere il suo pensiero. Bisognerebbe riconoscere il risultato d’una battaglia che ha inciso sulla vita di milioni di persone. E non vanificarlo come rischiamo che succeda”.
La sento però battagliera…
“Mio padre sosteneva che non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione. Ecco, io confido nel fatto che ci sia un paese capace di lottare e di convincere: si tratta di difendere un’idea di cura mossa da principi democratici”.
Fonte: La Repubblica 15 giugno 2021 – Intervista di Simonetta Fiori