Il Global Health Summit della Presidenza italiana del G20
Il 21 e il 22 maggio u.s. si è svolto a Roma il Global Health Summit, l’evento centrale del turno di Presidenza Italiana del G20, incentrato sui temi People, Planet, Prosperity. Il forum delle 20 più grandi economie – che entro la fine dell’anno dovrà trattare le sfide del millennio, i cambiamenti climatici, ilsostegno alla innovazione, la lotta contro povertà e le diseguaglianze – ha infatti stabilito come primo appuntamento il dibattito sulla salute globale e sulla lotta alla pandemia.
Il G20, ovvero il “Gruppo dei 20”, è il principale forum di cooperazione economica e finanziaria a livello globale. Si tiene ogni anno, e riunisce le principali economie del mondo, ovvero Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito e Stati Uniti (cioè i paesi del G7), i paesi del gruppo “BRICS” – Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – e anche Arabia Saudita, Australia, Argentina, Corea del Sud, Indonesia, Messico e Turchia. A questi si aggiunge anche l’Unione Europea. Alle riunioni del G20 partecipano anche le istituzioni di Bretton Woods (Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale), nonché le principali organizzazioni internazionali (Nazioni Unite, Banca Mondiale, OIL, OCSE).
Nel complesso il G20 rappresenta più del 90% del PIL mondiale, l’80% del commercio globale e due terzi della popolazione del pianeta. L’ appuntamento di Roma del Global Health ha rappresentato dunque un momento significativo in cui i principali leader internazionali hanno manifestato le posizioni dei rispettivi governi e organizzazioni internazionali che è opportuno ripercorrere. L’Italia, che ha assunto la Presidenza annuale del G20, ha sostenuto la necessità di un “nuovo umanesimo”, e si è posta l’obiettivo di definire un piano d’azione concreto, che troverà riferimento nei 16 principi della “Dichiarazione di Roma”.
Tra questi è stato individuato l’obiettivo di contrastare la pandemia da Covid 19 pervenendo ad una “vaccinazione globale, sostenibile, equa ed efficace”.
Il Presidente Mario Draghi ha quindi lanciato la proposta di introdurre una «sospensione dei brevetti» sui vaccini Covid-19, «in modo mirato, limitato nel tempo e che non metta a repentaglio l’incentivo ad innovare per le aziende farmaceutiche». E ha anche precisato che «questa proposta non garantisce che i Paesi a basso reddito siano effettivamente in grado di produrre i propri vaccini. Dobbiamo sostenerli finanziariamente e con competenze specializzate». In sostanza, l’idea di fondo è non solo trasferire i brevetti, ma anche e soprattutto trasferire le tecnologie necessarie specie quelle per la produzione dei vaccini su base RNA. Ha quindi ricordato che l’Unione Europea ha esportato circa 200 milioni di dosi di vaccini Covid-19 in 90 Paesi, circa la metà della sua produzione totale, e ha esplicitamente esortato tutti gli Stati a fare lo stesso. Ed ha inoltre indicato: «Dobbiamo revocare i divieti generali di esportazione soprattutto verso i Paesi più poveri». Il Presidente Draghi ha quindi fatto riferimento alla rilevanza del programma Accelerator Act-A coordinato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità con l’obiettivo di aiutare i paesi più fragili a fronteggiare la pandemia, indicando che l’Italia ha donato 86 milioni di euro a Covax e altri 30 milioni a progetti multilaterali collegati. Ha quindi annunciato l’intendimento di aumentare il contributo con altri 300 milioni di euro.
Anche il Presidente francese Emmanuel Macron è intervenuto anche in maniera netta: «Non ci dev’essere nessun tabù, ogni volta che la proprietà intellettuale è un ostacolo dobbiamo dare una risposta. Se le conclusioni del G20 implicheranno l’uso di nuove misure in materia di proprietà intellettuale le sosterrò». La Presidente Ursula von der Leyen ha manifestato ampio sostegno alla linea confermando l’obiettivo di «mettere sotto controllo la pandemia ovunque, e assicurare che i vaccini vengano dati a tutti, ovunque». Ed ha precisato che non sarà sufficiente affidarsi alle esportazioni dei vaccini, ma occorrerà che siano condivise le capacità di produzione. Ha quindi annunciato l’intendimento dell’Unione Europea di avanzare una proposta all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) per una «terza via» sulla condivisione dei brevetti «in linea con le idee espresse dal WTO».
Il Presidente cinese Xi Jinping ha indicato di essere favorevole alla sospensione dei brevetti delle vaccinazioni, e al trasferimento di tutte le tecnologie necessarie alla produzione: «Un anno fa proposi che i vaccini dovessero diventare un bene pubblico globale. Oggi, il problema delle vaccinazioni disomogenee è più acuto che mai. È essenziale che rifiutiamo il nazionalismo vaccinale». Ha quindi annunciato che la Cina donerà 3 miliardi di dollari nel corso dei prossimi tre anni per rispondere all’emergenza, e aggiungerà ai 300 milioni di dosi di vaccini già donati «ancor più dosi, al massimo delle sue capacità».
Per quanto riguarda gli USA l’amministrazione del Presidente Joe Biden aveva già ha annunciato di essere favorevole a rimuovere le protezioni dei brevetti per i vaccini contro il Covid-19 e di essere impegnata “attivamente” in questo senso nei negoziati in corso al Wto.
I fondamenti sulla tutela della proprietà intellettuale e sui “beni comuni”
Le criticità del tema sono note: da un lato c’è la tesi umanitaria per cui il vaccino va considerato alla stregua di un “bene comune”, dall’altra c’è la tesi – più dura ma molto realistica – secondo cui accantonando i benefit delle case farmaceutiche sui brevetti c’è il rischio di far arretrare la spinta della ricerca, l’interesse dell’industria farmaceutica a sostenere costosi programmi, e non solo da parte di Big Pharma, ma anche delle piccole e medie industrie del settore che comunque possono apportare rilevanti contributi scientifici.
C’è poi un altro aspetto da considerare, quello della “geopolitica dei vaccini”, la rincorsa sostenuta da grandi potenze ad approvvigionare alcune aree ove stanno estendendo le loro mire egemoniche. Il dibattito sui brevetti è quindi incentrato sul tema della tutela della proprietà intellettuale, un istituto che vanta origini nella Repubblica di Venezia, quando il 19 marzo 1474 venne promulgato lo Statuto dei brevetti, accompagnato da una significativa enunciazione di principio, ancora molto attuale: “Abbiamo fra noi uomini di grande ingegno, atti ad inventare e scoprire dispositivi ingegnosi: ed è in vista della grandezza e della virtù della nostra città che cercheremo di far arrivare qui sempre più uomini di tale specie ogni giorno”. L’idea di un interesse generale a riconoscere di diritto la legittimità di un profitto per chi dava lustro alle proprie capacità intellettuali si sviluppò poi con l’istituzione delle grandi Accademie Reali delle Scienze, tra cui spiccarono in Inghilterra la Royal Society (1662) e a Parigi l’Académie Royale des Sciences (1666), e un secolo più tardi con l’Accademia delle Scienze di Torino attenta sin dalle origini a «procurare qualche reale vantaggio alla Comune Società», come disposto all’art. 3 del Regolamento annesso alle lettere patenti del 25 luglio 1783.
Le norme a tutela della proprietà intellettuale si sono quindi sviluppate variamente negli ordinamenti nazionali nell’ambito di una complessità di interventi normativi che vanno dal diritto pubblico e amministrativo e al diritto civile e diritto commerciale Ma con lo sviluppo del commercio mondiale e degli scenari della globalizzazione di fatto la normativa sulla tutela proprietà intellettuale può dirsi oggi appannaggio soprattutto del corpus normativo che si è venuto delineando nel diritto internazionale, avuto riguardo in particolare agli Accordi istitutivi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO/OMC) e più specificamente agli Accordi TRIPs, The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights.
Di contro, sul fronte più generale dell’evoluzione della nozione politica, sociologica e giuridica del diritto di proprietà, basato sullo ius excludendi alios, si è sviluppato il tema della riconoscibilità di “beni comuni”, che, al di là delle categorizzazioni estreme di impronta marxista, anche nei sistemi liberistici ha trovato ampio sostegno. In particolare più recentemente è proprio nell’ ambiente mercantile e liberistico nordamericano che si è sviluppata la teoria economica dei Commons, ad opera di Elinor Ostrom. L’economista statunitense, cui fu conferito il premio Nobel nel 2009, ha sostenuto che beni o servizi come le risorse naturali, l’acqua, l’aria, l’energia, l’ambiente, il territorio, il patrimonio, culturale e paesaggistico, la rete, vanno inquadrati nella categoria romanistica delle res communes omnium, inappropriabili e preclusi al commercio giuridico. Essi vanno sottratti alla logica del mercato, in settori caratterizzati da economie di scala, elevati costi fissi, esternalità, anche perché sembrano implicare la maggior razionalità economica dell’intervento pubblico. Per Ostrom la privatizzazione dei beni comuni si traduce in sottoconsumo e sottoproduzione, mentre si rivela economicamente più efficiente una loro gestione da parte di comunità di utenti (E. Ostrom, Governing the Commons. The evolution of institutions for collective action, New York 1990 trad. it. Governare i beni collettivi, Venezia 2006).
Sul piano del diritto globale comunque, come efficacemente ricordato da A. Mazzitelli in “Costituzione e Beni comuni” (Federalismi, N. 22 – 21/11/2018), l’ affermazione di principi legati alla nozione di “beni comuni” si rinviene negli ordinamenti di common law nella Public trust nelle sentenze di diverse Corti federali degli Stati Uniti contro le pretese di privatizzazione di importanti risorse pubbliche, e in leggi e sentenze sulla difesa ambientale, in cui in alcuni casi la nozione di bene comune è ricondotta anche al “diritto naturale”, come indicato in sentenze delle Corti supreme indiana e filippina.
Per quanto concerne l’ordinamento giuridico europeo ed italiano in particolare, la nozione di “bene comune” ha radici remote rinvenibili nel diritto romano, a cominciare dalle Institutiones giustinianee, che, facendo proprio un frammento di Marciano, contrappongono alle res privatae quattro specie di cose: le res communes omnium, le res publicae, le res universitatis, le res nullius. Ma la matrice dei “beni comuni” è riconducibile nella stessa nozione di demanio, che affonda le origini neidiritti consuetudinari delle comunità dei villaggi sul pascolo, il legnatico, la spigolatura, e poi si è evoluta nella tradizione del concetto costituzionale di funzione sociale della proprietà facendo riferimento agli articoli 2, 9, 42 e 43 della Costituzione. La dottrina ricorda la proposta della Commissione parlamentare presieduta da Stefano Rodotà, che nel 2007 fu incaricata di redigere uno schema di disegno di legge delega per la riforma delle norme del codice civile sui beni pubblici. In quella sede, le categorizzazioni dei beni della codicistica civile furono ritenute anacronistiche, e fu predisposto un testo normativo che prevedeva la cancellazione delle categorie del demanio e del patrimonio indisponibile e la redistribuzione dei beni ad esse ascrivibili in nuove categorie, tra cui fu individuata quella dei “beni comuni”, beni direttamente connessi alla soddisfazione dell’esercizio di diritti fondamentali. Il disegno di legge venne presentato in Senato ma non fu stato mai discusso (per la ricognizione dottrinale v.: cit. A. Mazzitelli Costituzione e Beni comuni, in Federalismi, N. 22 – 21/11/2018; Beni comuni di Mauro Orlandi – Enciclopedia Italiana – IX Appendice 2015; S. Rodotà, Il terribile diritto: studi sulla proprietà privata e beni comuni, Bologna 1981, 2013).
In linea generale tuttavia può dirsi che «non esiste una definizione giuridica riconosciuta dei beni comuni», sebbene vi sia un consenso di massima tra studiosi per configurare il presupposto di un “bene comune” quando si consolida un consenso generale di una comunità che si impegna a gestirli e ad averne cura non solo nel proprio interesse, ma anche in quello delle generazioni future. Come enunciato dallo stesso Rodotà, essi rappresentano l’opposto della proprietà privata, e in un certo ambito della filosofia giuridica oggi emergente – ma ancora minoritaria – si fondano sul principio che la cosiddetta proprietà privata rappresenterebbe soltanto un’eccezione ai beni comuni e sarebbe garantita a seconda dei bisogni variabili (v. Ecologia del diritto. Scienza, politica, Beni Comuni di U. Mattei e F. Capra, Aboca 2017). …LEGGI L’ARTICOLO COMPLETO
Fonte: ASTRID RASSEGNA N. 10/2021