Usciamo dalla pandemia con la consapevolezza di dover rivisitare i nostri sistemi sanitari. Per renderli capaci di affrontare nuovi eventi pandemici e di rispondere alla sfida dell’aumento dei malati cronici. Quattro le questioni all’ordine del giorno.
Programmare il futuro ai tempi del Covid
Dopo quasi un anno e mezzo di “stato di emergenza” (la prima dichiarazione per rischio sanitario è datata 31 gennaio 2020 – e forse allora non ci credeva nemmeno il governo che ha emesso la delibera), i numeri sono quelli di un evento epocale per il balzo nella mortalità, per l’ennesimo crollo delle economie da quando è iniziato il nuovo millennio, per le privazioni alle nostre libertà. Solo quando tutto sarà finito e avremo valutato anche gli effetti indiretti di quello che è stato, ci potremo voltare indietro e capire davvero cosa sia stata la pandemia da Covid-19. Per il momento, col rischio che nuove varianti modifichino ancora la situazione, stiamo faticosamente cercando di trovare le coordinate per riprenderci una vita quasi-normale e provare a programmare il futuro.
In questo quadro, anche per le possibilità offerte dal cambio di passo dell’Unione europea (non solo con il programma Next Generation), è utile aprire una “agenda per la salute” con l’obiettivo di rivisitare i nostri sistemi sanitari perché siano pronti a nuovi eventi pandemici e siano in grado di rispondere alle sfide poste dall’aumento dei malati cronici.
Stato centrale o regioni?
Sono tanti i possibili temi, ma ce ne sono almeno quattro che sono emersi con forza nel dibattito che ha caratterizzato le varie fasi della pandemia. Il primo (e il più ovvio) è quale livello di governo dovrebbe prendere le decisioni per tutelare la salute dei cittadini. Nel nostro paese, è stato declinato, soprattutto per ragioni politiche, sul contrasto tra il governo centrale e le regioni; ma la questione è certamente più ampia e coinvolge il ruolo dell’Unione europea e dell’Organizzazione mondiale della sanità (Who – World Health Organization).
La discussione dovrebbe incentrarsi sulle diverse funzioni che svolge un sistema sanitario. Sembra indiscutibile – al di là delle questioni giuridiche circa la “profilassi internazionale” – che tutte le volte che la scelta presa in una determinata giurisdizione produce effetti esterni in un’altra, quella scelta andrebbe fatta al più alto livello di governo possibile. La gestione di una pandemia (dalla decisione in merito ai limiti agli spostamenti e alle chiusure dei confini fino alla definizione del piano vaccinale) è bene sia gestita dal governo centrale, che si dovrebbe coordinare con tutti gli altri paesi a livello sovranazionale. Ma le ricadute ci sono anche per altre politiche che coinvolgono malattie trasmissibili: le vaccinazioni per l’infanzia così come quelle anti-influenzali dovrebbero essere condotte quantomeno con un alto grado di coordinamento tra territori.
Questo non significa che si cancelleranno tutte le diseguaglianze e che andrà sempre tutto bene: la competenza amministrativa potrà generare differenze tra territori (un conto è stabilire quali vaccinazioni fare e con che ordine, un altro è gestire materialmente il processo, chiamare le famiglie, organizzare le sedute vaccinali e così via); e in situazioni molto incerte, dove non è affatto chiaro che cosa si dovrebbe fare, il centro potrebbe pure sbagliare strategia.
Al centro dovrebbero andare anche quelle funzioni per le quali si possono sfruttare economie di scala: un esempio è il procurement (l’approvvigionamento), come è stato per i vaccini a livello europeo. Ma per le altre funzioni, la cura delle malattie non trasmissibili per le quali non ci sono spill-over tra territori, la differenziazione territoriale potrebbe consentire l’emergere di “buone pratiche”; e il decentramento potrebbe essere addirittura la soluzione migliore, soprattutto tenendo conto della conoscenza dei territori e dei loro problemi da parte dei governi regionali.
Gli standard ospedalieri
Un secondo tema chiave è l’organizzazione della produzione di servizi e la definizione di quali servizi servono davvero alla luce dei bisogni.
All’inizio della pandemia, si è discusso per un po’ di tempo dei tagli dei posti letto e della mancanza di posti in terapia intensiva. Ci sono due errori nella discussione: il primo è che quelli che venivano definiti “tagli” erano un tentativo di ristrutturazione della produzione di servizi in un mondo dove l’epidemia è quella delle malattie croniche, che non sono trasmissibili e che vanno curate con cure territoriali appropriate. Politiche di ristrutturazione sulle quali peraltro c’era consenso unanime. Il secondo è che dovremmo cercare di combattere questa pandemia (e le prossime che verranno) con la prevenzione e i servizi territoriali, cioè prima di aver bisogno dell’ospedale: perché la dinamica di diffusione del virus (con le annesse necessità di cure) è tale che nessun sistema sanitario (per quanto ricco e inefficiente, cioè con capacità produttiva in eccesso rispetto ai bisogni “normali”) può reggere senza porre un freno alla malattia.
Questo ci porta a due questioni per il futuro dei sistemi sanitari: la prima è se la rete ospedaliera debba essere ripensata e, se sì, come. A dire il vero, una riflessione sugli standard ospedalieri è stata già fatta in tema di programmazione sanitaria ed è stata trasformata anche in norma di legge dal decreto 70/2015. Ma su questo punto, che è una delle vere questioni, non si è levato uno straccio di discussione. E il Piano nazionale di ripresa e resilienza prende un po’ per scontati questi standard, per esempio laddove va a definire l’ammodernamento tecnologico degli ospedali.
La seconda questione è che cosa voglia dire “servizi territoriali” e come si traduce in pratica la “presa in carico” dei pazienti cronici, che molto spesso vuol dire anziani e fragili, i più colpiti dal Covid-19. Su questo punto si è sentito tutto e il contrario, a partire dalla necessità di più posti in Rsa, quando probabilmente è un modello da superare o quantomeno limitare a casi che non si possono gestire alternativamente. L’idea del Pnrr è di puntare sulle case della comunità, la telemedicina e gli ospedali di comunità: certo non si potrà prescindere da una figura come quella che oggi è il medico di medicina generale e domani sarà un team multidisciplinare (da costruire, e nel quale integrare un nuovo “medico di famiglia”, appositamente formato) che si occupi di sanità e di sociale e sia centrale nelle reti di servizi per quei pazienti che devono essere seguiti fuori dagli ospedali, quando il problema acuto sia stato risolto. Non sono idee nuove, anzi; e senza rimuovere i vincoli che ne hanno impedito la realizzazione finora sarà difficile fare passi concreti che vadano oltre nuove denominazioni.
Il ruolo del privato e chi finanzia i servizi
Sul tema dell’ospedale e del territorio si innesta anche la discussione del ruolo del privato, una terza questione che durante la pandemia è stata spesso richiamata, con l’idea che i tagli abbiano favorito la sanità privata. Anche qui servirebbe un minimo di chiarezza: sul fronte dei servizi ospedalieri, il ruolo del privato è relativamente limitato e, spesso, costituito di strutture altamente specializzate che lamentano i ritardi del regolatore pubblico nel remunerare l’innovazione e la qualità. Sul territorio, invece, in particolare per quanto concerne i servizi a cavallo con il sociale, il privato è un attore molto importante, che spesso supplisce alla carenza di strutture pubbliche. Di quale privato vogliamo fare a meno? E, soprattutto, ha senso farne a meno? Siamo sicuri che il pubblico sia in grado di erogare in modo più efficiente i servizi che oggi vengono offerti dal privato?
Peraltro, molto spesso, sul ruolo del privato si mischiano considerazioni che riguardano la produzione di servizi con considerazioni che invece hanno a che fare con il loro finanziamento. E questa è l’ultima questione sulla quale occorre riflettere. I dati dicono che circa un quarto della spesa sanitaria in Italia è finanziata con fondi privati, che servono per acquistare per lo più farmaci e servizi di diagnostica, oltre ovviamente alle cure odontoiatriche, che non sono coperte dalla nostra assicurazione pubblica, il Servizio sanitario nazionale.
La grande anomalia italiana, rispetto a paesi simili a noi, è che la spesa privata per la salute è sostanzialmente spesa “out-of-pocket”, quattrini che escono direttamente dal portafoglio dei cittadini, senza alcuna intermediazione da parte di assicurazioni o mutue. Qui sì che servirebbe qualche innovazione seria da parte del privato per cominciare a immaginare un secondo pilastro col quale, inevitabilmente visti gli andamenti della demografia, ci troveremo a dover fare i conti in un futuro non troppo lontano.
fonte: lavoce.info