Il cambiamento tradito
Luigi Manconi torna sulla questione del deterioramento delle pratiche di salute mentale con un suo articolo su La Stampa di qualche giorno fa (17 maggio). La lista delle cattive pratiche riscontrabili in molti servizi di salute mentale riesce davvero impressionante. E dolorosa per chi, come tanti di noi, non hanno mai smesso di pensare le persone, i cittadini con l’esperienza del disturbo mentale, al centro delle cure “umane e gentili” che il cambiamento legislativo di quasi mezzo secolo fa voleva garantire.
Negata l’istituzione, com’è accaduto in tutto il nostro paese, e meglio, nella concretezza delle pratiche territoriali, in tante realtà locali, bisognava da subito interrogarsi sul che fare, su che cosa poteva voler dire dare continuità al lavoro di critica e di distruzione del manicomio. Sta qui il nodo cruciale che non abbiamo potuto evitare e che non finirà mai di interrogarci: come, negata l’istituzione della psichiatria, pensare, progettare, montare le nuove istituzioni della salute mentale. Ecco il compito, direi l’urgenza, che, impreparati, abbiamo dovuto affrontare.
Ero un ragazzino in quegli anni, uno dei giovani di Basaglia arrivati a Trieste da mezza Italia. Un ragazzino che capiva poco di manicomi e ancor meno di istituzioni totali e, tuttavia, ero entusiasta, avvertivo nelle quotidiane assemblee l’ansia del che fare, la paura di trovarsi in mezzo al guado, il pensiero di un mondo nuovo possibile (Il sogno di una cosa?). Ogni indecisione, ogni errore poteva segnare il fallimento. Il gruppo che si andava riconoscendo veniva messo alla prova ogni giorno. Avvertivamo voci di sfida: è facile – dicevano – buttare giù una rete, un muro, aprire una porta. E poi?!
Non si può negare che rompere è più facile che costruire.
Questo vale certamente per le cose, ma quando ci si riferisce alla vita dell’uomo, come stava accadendo, allora il distruggere e il costruire assumono tutta un’altra dimensione: rimandano a scelte di campo profonde, rigorose, difficili da frequentare.
Così Basaglia conclude nella bella intervista di Ernesto Venturini ne Il giardino dei gelsi, Einaudi 1979: “distruggere l’istituzione è quanto di più difficile e ruvido si possa immaginare”.
La distruzione, e la conseguente profonda trasformazione, ha preteso una ricerca impietosa sulla natura della malattia mentale, sulla sua in/consistenza “scientifica”, sulla ragione delle istituzioni totali. Forse bisognerà non stancarsi mai di tornare a rivedere quei percorsi, riascoltare quelle storie.
Da dove ha potuto avere origine la trasformazione che Basaglia cerca faticosamente di realizzare?
Non riesco a pensare ad altro se non ai primi giorni goriziani. È il novembre del 1961. Un giovane medico, non ancora quarantenne, mandato via dall’università di Padova perché troppo filosofo entra nell’ospedale psichiatrico di Gorizia. Sarà il nuovo direttore. Vede la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede “con gli occhi del filosofo” una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell’assenza. È questa la dolorosa condizione che senza tregua lo interroga.
Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è quella psichiatria figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. La malattia nascondeva ogni cosa. I nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non hanno mai abitato quel luogo. E la cura, neanche a pensarci.
Così, messa tra parentesi la malattia, come svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. A Gorizia si cominciò allora ad aprire le porte, ad abolire tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile curare e cercare un altro modo per ascoltare, per esserci, per riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare per la prima volta le torture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali.
Con la legge 180 moltissimi pensarono, e continuano a pensare, che una storia anche se eroica ed entusiasmante, si era conclusa. Chiusi i manicomi, dissero, la psichiatria sarebbe stata accreditata nel mondo certo della clinica, avrebbe guadagnato il candore del camice bianco, le promesse della moderna medicina e gli orizzonti miracolosi dei farmaci, delle psicoterapie senza fine. La pericolosità, la deriva sociale, i diritti negati finalmente avrebbero interessato i carabinieri, i servizi sociali, la politica. Finalmente una psichiatria pulita!: così i tanti psichiatri che plaudivano alla nuova legge.
Si andava marcando una frattura (una paradossale continuità, in realtà) tra un prima, il manicomio, e un dopo, le psichiatrie delle diagnosi e del manuale diagnostico statistico.
Non era stato il manicomio l’oggetto del lavoro di deistituzionalizzazione ma la sofferenza, la follia che diventa malattia, la negazione dei soggetti e dei diritti, l’esclusione.
L’approvazione della Legge 180 del 1978 dava finalmente inizio al lavoro di deistituzionalizzazione. In molte regioni l’inerzia e la corsa verso i servizi ospedalieri, i fragilissimi e freddi ambulatori e le liste di attesa, la ricerca affannosa di posti dove mettere i matti rallentarono non poco la chiusura (i manicomi chiuderanno 20 anni dopo!) e contribuirono a disperdere le ragioni di quella faticosa trasformazione appena avviata, perdendo di vista la comunità, i contesti e le reti che andavano progettate e ordite.
Fu chiaro allora che bisognava pensare alla cura, al riconoscimento ostinato dell’altro, ai nuovi luoghi dell’incontro che rispondessero a quelle premesse. Abbandonato il manicomio la cura poteva realizzarsi nei contesti, nelle relazioni, nella quotidianità. Potevamo immaginare di incontrare la sofferenza e il bisogno prima che diventi malattia. Un nuovo spazio dove le persone, senza la paura della porta che si chiude alle loro spalle, possono entrare per chiedere aiuto, per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno.
Cominciamo a immaginare e a organizzare luoghi che dovevano accogliere le voci, le identità molteplici, i conflitti: condomini, piazze, mercati, stazioni. Un luogo, penso al centro di salute mentale 24h nella mia esperienza triestina, che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai folli. Tra questi luoghi che andiamo immaginando e il fuori (il territorio) si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia; che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento così presente quando ricorre l’esperienza della malattia, della fragilità, del bisogno.
In questi anni è stato possibile dimostrare che possiamo aver cura del folle, del diverso, del vecchio, del bambino in un altro modo. I Centri di salute mentale e i tanti e diversi luoghi di accoglienza, di cura, quando sono attivi, presenti e prossimi quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, quando veramente sono in grado di stare sul mercato e piegarsi al bisogno singolare; le associazioni delle persone che vivono l’esperienza della fragilità, quando fanno crescere protagonismo e partecipazione; i luoghi dell’abitare e i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni, dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire.
Questi luoghi, e le buone pratiche che li abitano, non riescono neanche a immaginare le “porte chiuse” e gli abbandoni colpevoli, contrastano quotidianamente la psichiatria delle distanze, diventano il momento privilegiato dell’ascolto, dell’accoglienza silenziosa e non perdono mai di vista il fuori. Anzi è la attenta valorizzazione di quel fuori (quel territorio di cui oggi tanto si parla) che pretende la cura in una sorta di contiguità tra la casa delle persone, gli spazi del rione, i luoghi collettivi, il centro di salute mentale, il distretto, il centro diurno. Progettare e costruire la cura significa rendere concreta, praticabile, abitabile la soglia.
Abitare la soglia ci costringe a incontrare l’altro nella sua realtà. Prima che il passaggio del confine salute/malattia avvenga. Prima che il disagio, l’isolamento, un profondissimo dolore, una inguaribile ferita si strutturi in malattia. Incontrare la sofferenza nella realtà dove essa accade. La trasformazione di cui vuole parlare Basaglia si muove da qui.
Il punto è che la buona volontà di tanti operatori, giovani e meno giovani, per tenere vivo l’orizzonte del cambiamento viene ostacolata da forme organizzative e dispositivi, leggi regionali e regolamenti aziendali che impediscono singolarità, creatività e complicità. Le culture e le pratiche preziosissime che in questi quarant’anni si sono realizzate non riescono più a interrogare sul senso, sulle radici, sulla dimensione etica e politica del lavoro. La dimensione critica dei saperi e delle pratiche della psichiatria va scomparendo dal lessico di tutti gli operatori.
Questo mestiere pretende una radicale e rischiosa scelta di campo, esige di prendere parte, di accettare l’incertezza e di vivere quotidianamente il conflitto. Nella solitudine e nella frammentazione è difficile, specie per i più giovani, scegliere, resistere all’omologazione, al richiamo dell’indifferenza. Infinite volte, alla fine delle assemblee con familiari, operatori, cittadini volenterosi, ci siamo detti, sconsolati, che senza luoghi adeguati e dignitosi, con una endemica carenza di personale e di fronte all’evidente povertà di mezzi e di danari, non si va da nessuna parte. Il nostro Paese spende poco meno del 3% del budget nazionale della Sanità per la salute mentale (con differenze notevoli tra le 20 regioni), a fronte del 10-15% di altri Paesi come Francia, Inghilterra, Finlandia. Aspettando le risorse, molti operatori entusiasti invecchiano e, delusi, prendono strade diverse. E ognuno si ritrova a difendere, timoroso, il proprio misero spazio dalla presenza dell’altro, mentre i territori delle aziende sanitarie diventano sconfinati e i dipartimenti e le organizzazioni tra accorpamenti e fusioni si trovano spaesati in circoscrizioni sconosciute, segnate con un tratto di matita sulla carta da amministratori di “alta formazione manageriale”.
Come abbiamo potuto non vedere nei fatti gli ostacoli insormontabili allo sviluppo di luoghi di relazioni e di vicinanza, dove sia possibile sostenere visibilità, appartenenza, protagonismo dei soggetti, dei più vulnerabili?
Cominciammo a progettare e lavorare privilegiando la “piccola scala”, in cricoscritte aree territoriali, anche con la finalità di riconoscere i bisogni, denunciare le diseguaglianze, promuovere malgrado la “malattia” una vita buona. Perché altrimenti, continuiamo a pensare Centro di salute mentale 24 ore? A gruppi di lavoro multidisciplinari dove l’incontro ravvicinato e quotidiano degli operatori garantisse conoscenza, condivisione, reciprocità? La dimensione affettiva, dicemmo! Oggi nelle smisurate terre dei Dipartimenti accade che infermieri, riabilitatori, cooperatori sociali, assistenti sociali, psichiatri, psicologi non si conoscano nemmeno, e ognuno arrangi nella solitudine la sua crescita culturale, le scelte formative o la fine di ogni interesse, impedito a ogni salutare confronto, inchiuso in un’impenetrabile autoreferenzialità.
La dimensione amorosa, soggettiva, utopica e un po’ sognante si è andata perdendo. E con essa non c’è più traccia del senso di appartenenza di quell’attenzione etica, politica e umana che avrebbe dovuto essere l’interrogazione dominante nei luoghi di questi mestieri.
A nulla serve credere che i fondi europei mobilizzeranno l’apatia e l’indifferenza dominante. La pandemia, che invochiamo a causa e giustificazione di ogni cosa, poco condiziona le questioni di cui cerco di parlare, che vengono da molto più lontano. La distanza e lo sguardo raggelante delle psichiatrie e delle psicologie che condizionano le scelte culturali e operative di tutto il mondo degli operatori domina il campo, e le persone che vivono l’esperienza continuano a essere obbligate a trattamenti, stupidi se non dannosi. La pratica della contenzione non è mai stata abbandonata, anzi i “legatori” vengono allo scoperto e rivendicano con parole gentili dignità alle loro orrende pratiche. La presa in carico delle singole persone e delle vastità dei loro bisogni, che pure abbiamo sperimentato con successo, dovrebbe rappresentare la potente alternativa alle modalità burocratiche e de-soggettivanti che dominano le (cattive) pratiche nella quasi totalità dei dipartimenti di salute mentale.
Basterà continuare a parlare di budget di salute, di Lea, di fondi europei e così via? Penso che non basterebbe. Non c’è più tempo. È il momento di denunciare con parole chiare, anche se dolorose, le distorsioni, le regressioni e i crimini di pace quotidiani che continuano ad accadere. La ingovernabilità delle differenti e contrastanti politiche regionali, delle inutili formazioni accademiche, delle povertà di cultura e di risorse delle aziende sanitarie in ordine alla salute mentale, sono evidenti. Un gruppo di operatori, del quale ho fatto parte, ha compilato un progetto di legge, con l’intenzione di dare unitarietà alle politiche di salute mentale, portato in Parlamento dalla Senatrice Nerina Dirindin e ripreso in questa legislatura alla Camera dall’On. Elena Carnevale e al Senato da Paola Boldrini (DDL 11 luglio 2018, http://www.senato.it/leg/18/BGT/Schede/Ddliter/49630.htm).
Forse bisognerebbe ricominciare da lì.
Peppe Dell’Acqua
fonte: “Repubblica Salute”, 29 maggio 2021