Istituzioni residenziali, convenzioni internazionali e diritti negati. di Benedetto Saraceno

Le istituzioni residenziali per malati di mente o per gravi disabili o, semplicemente per anziani non autosufficienti sono ancora troppo spesso luoghi di miseria, violenza, abuso.

Se una legge è in contraddizione con la carta costituzionale ciò che va cambiato è la legge e non la carta costituzionale. Ebbene anche tutte le convenzioni internazionali firmate e ratificate dal parlamento hanno valore prevalente sulle leggi e dunque se queste ultime contraddicono la convenzione dovranno essere cambiate. E così è anche per la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dal governo italiano e dalla Unione Europea[1]. Ma chi la conosce questa convenzione? O meglio, quanti fra coloro che si occupano di persone con disabilità la conoscono? Spesso in Italia si assiste a dibattiti su questioni che non dovrebbero più essere materia opinabile in quanto sono regolate da leggi vigenti, inclusa la Convenzione di cui qui parliamo. Ma nella realtà le cose non vanno così e sono molto pochi gli infermieri, i medici, i geriatri, gli psichiatri e i direttori di strutture residenziali che conoscono e applicano con rigore la Convenzione, pur essendo questa una legge.

Si tratta di una legge che afferma innanzitutto il diritto di avere dei diritti, il che non è poco quando ci si riferisce a una popolazione che non solo è stata e continua ad essere deprivata di molti diritti ma per cui si sono financo invocate “ragioni scientifiche” per tale statuto di diritti amputati (e le incongruenze, gli abusi, gli arbitri che riempiono le pagine delle perizie psichiatriche ne fanno ampia testimonianza). Nella Convenzione, per la prima volta, i diritti delle persone con disabilità mentale sono assimilati ai diritti delle persone con disabilità fisica ponendo così fine a una discriminazione che sussisteva anche all’interno dello stesso mondo delle disabilità. E, fra le molte e importanti affermazioni della Convenzione, una soprattutto promuove sostanzialmente i diritti delle persone con disabilità mentale quando afferma che la disabilità in sé non può mai essere utilizzata come motivo di limitazione delle libertà. Infatti, l’articolo 14 della Convenzione, se realmente applicato, avrebbe conseguenze importanti sulla relazione di potere che esiste fra la psichiatria e la geriatria da un lato e i propri utenti dall’altro, in quanto stabilisce che tutte le persone con disabilità (non vi è distinzione fra fisica e mentale) : “godano del diritto alla libertà e alla sicurezza personale; non siano private della loro libertà illegalmente o arbitrariamente, che qualsiasi privazione della libertà sia conforme alla legge e che l’esistenza di una disabilità non giustifichi in nessun caso una privazione della libertà”. Inoltre, gli articoli 25 e 28 sanciscono altri due fondamentali diritti di cui la maggior parte delle persone con disabilità gravi sono sistematicamente deprivate: il diritto a fruire dei più alti livelli possibili di salute fisica e mentale e il diritto ad uno standard adeguato di vita e di protezione sociale.

C’è da chiedersi se le istituzioni residenziali per malati di mente o per gravi disabili o, semplicemente per anziani non autosufficienti, rispettino queste prescrizioni? Se gli operatori che in tali istituzioni lavorano conoscano i doveri che impone loro la Convenzione?

Non è stato abbastanza denunciato il fatto che le persone con disabilità mentali muoiono molto prima delle persone della medesima età e condizione socioeconomica che però non soffrono di queste malattie e disabilità[2]. Tale mortalità precoce non è dovuta alla malattia in sé (la malattia mentale in sé rende conto, infatti soltanto di una frazione limitata di decessi imputabili o al suicidio o alle conseguenze dell’uso di alcol e altre sostanze psicotrope).  Tutti gli altri decessi precoci, e sono la maggioranza, sono invece dovuti:

  • alla scarsa attenzione da parte dei sistemi sanitari verso le patologie somatiche delle persone con malattie mentali
  • alle patologie somatiche concomitanti che dipendono dalle condizioni di abbandono, di marginalità sociale o di istituzionalizzazione delle persone con malattie mentali

e, infine,

  • ai protratti trattamenti psicofarmacologici responsabili di un accumulo di gravi effetti indesiderati.

Inoltre, è importante osservare che la Convenzione, in questo senso estremamente progressista e innovatrice, non si limita ad afferma la protezione dalla violazione dei diritti ma afferma anche la promozione dei diritti: non si tratta dunque soltanto di evitare violazioni dei diritti ma anche di promuoverne l’esercizio. Gli esempi di violazione di questi diritti nelle istituzioni residenziali psichiatriche e per disabili o per anziani non autosufficienti  sono migliaia, avvengono nei paesi poveri e in quelli ricchi, sono denunciate da anni ma, curiosamente, le associazioni professionali si limitano a dichiarazioni generali e  di principio sull’etica dei trattamenti ma mai si propongono come parte attiva nel denunciare e nel collaborare con gli organismi giudiziari nazionali o internazionali né sono sollecite nel favorire il lavoro degli attivisti dei diritti umani, spesso visti come disturbatori che cercano lo scandalo e mai come esponenti della società civile che rivendicano i diritti dei più vulnerabili e senza voce.  Le istituzioni psichiatriche per adulti, pubbliche e private, le istituzioni specializzate per bambini e adolescenti con disabilità intellettuale o per anziani con demenza sono ancora luoghi di miseria, violenza, abuso.   Se questo è il cosiddetto “moral case” non v’è dubbio che affrontarlo non è solo una questione di mutamento di attitudini e pregiudizi ma soprattutto di mutamenti radicali delle politiche per la disabilità, delle legislazioni connesse e delle organizzazioni dei servizi che si devono occupare di persone con disabilità, offrendo loro risposte umane, dignitose, giuste, efficaci: l’allarme lanciato nel 2013 dallo Special Rapporteur[3] delle Nazioni Unite rimane sempre valido.

Tuttavia, malgrado la Convenzione, in Italia si continua a legare[4] e non solo nei servizi di Diagnosi e Cura ma anche nelle molteplici tipologie di residenzialità, dai matti ai vecchi passando per i minori disabili, tutti sono esposti al rischio di essere contenuti al proprio letto. Per fortuna la Corte di Cassazione V sezione, sentenza 20 giugno 2018, n. 50497, ha stabilito che la contenzione non ha natura di “atto medico” in quanto quest’ultimo ha la finalità di realizzare un “beneficio per la salute, bene tutelato dall’articolo 32 della Costituzione, che consente di fornire copertura costituzionale all’atto medico”. La contenzione meccanica, afferma la Corte, mette invece in atto un “presidio restrittivo della libertà personale che non ha né una finalità curativa né produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente”. Allora i sanitari che utilizzano di routine la contenzione meccanica “sottopongono il paziente a una illegittima privazione della libertà personale”, configurando il reato di sequestro di persona, ex art. 605 CP.

D’altro canto, malgrado quaranta anni di legge 180 e l’eccellenza di esperienze di psichiatria territoriale e superamento di ogni forma di istituzionalizzazione, l’Italia non ha ritenuto che le persone istituzionalizzate di età inferiore ai 65 anni (dunque i gravi disabili mentali e fisici) non dovessero essere priorizzati nella campagna vaccinale Covid 19, diversamente da quanto deciso da altri paesi europei come Francia, Danimarca, Germania, Irlanda, Portogallo e Spagna[5].

Ma allora, di cosa abbiamo ancora bisogno per restituire diritti ai disabili fisici e/mentali nelle istituzioni o negli ospedali? È proprio grazie alla Convenzione che la “etichetta” dei diritti umani affermati e al tempo stesso violati dalle istituzioni per disabili, cessa di essere una “piccola etica” per divenire Etica pratica. La conoscenza e la rigorosa applicazione della Convenzioni delle Nazioni Unite non è un optional internazionalista ma un dovere nazionale.

Benedetto Saraceno, Segretario Generale, Lisbon Institute of Global Mental Health

Bibliografia

  1. United Nations. Convention on the Rights of Persons with Disabilities. New York, 2006.
  2. Wahlbeck, Westman J, Nordentoft M, Gissler M, Laursen TM. Outcomes of Nordic mental health systems: life expectancy of patients with mental disorders. British Journal of Psychiatry 2011; 199: 453-458
  3. United Nations Human Right Council. Report of the Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment. New York, 2013.
  4. Del Giudice Giovanna. E tu slegalo subito. Edizioni Alphabeta Verlag, Merano, 2015.
  5. Depicker L, Casanova Dias M, Benros M et al. Severe mental illness and European COVID 19 vaccination strategies. Lancet Psychiatry 2021; 8:356-358.

fonte: saluteinternazionale.info

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