La Consulta e le pulsioni neo-manicomiali. di Katia Poneti

Le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) sono strutture ad alta intensità terapeutica, ispirate al principio della recovery, all’idea di recuperare quanto più possibile le capacità della persona con patologia psichiatrica che ha commesso un reato, con l’obiettivo del suo reinserimento sociale. Si tratta di un’idea innovativa, che ha proseguito il percorso iniziato dalla Legge Basaglia con la chiusura dei manicomi civili. Le Rems sono parte di un sistema, formato anche dai servizi psichiatrici sul territorio e dalle strutture che ospitano pazienti in libertà vigilata, che, grazie alla riforma operata con le leggi 9/2012 e 81/2014, ha sostituito gli Ospedali psichiatrici giudiziari.

L’esclusiva gestione sanitaria delle strutture e la territorialità, che permette di curare i pazienti nella Regione di provenienza, sono i principi che caratterizzano le Rems, e che saranno oggetto del giudizio della Corte Costituzionale il prossimo 26 maggio. Con un’ordinanza emessa dal Gip presso il Tribunale di Tivoli è stata infatti messa in dubbio la costituzionalità della norma che li prevede perché, si sostiene, lesivi della competenza del Ministerio della Giustizia, per il tramite del Dap, ad inserire nelle strutture le persone sottoposte a misura penale.

L’udienza si svolgerà in Camera di consiglio, e questo, oltre a essere conseguenza del fatto che nessuna parte si è costituita, può far ipotizzare che la Corte si esprimerà nel senso della non ammissibilità.

Rimane, tuttavia, significativo il fatto che la questione sia stata sollevata, perché è espressione del sentire di una parte della società che rimpiange l’istituzione dell’Opg. Certo, il rimpianto non riguarda le condizioni di degrado in cui si trovavano gli Opg prima della loro chiusura, ma piuttosto la loro efficienza nell’aprire le porte a chi vi arrivava, meno a chi aspirava ad uscirne. Quello che infatti si lamenta del nuovo sistema delle Rems è l’impossibilità di inserire persone nelle strutture anche quando sono al completo, superando il numero chiuso, o al di fuori del territorio di provenienza del paziente.

Il cuore del sistema delle Rems è la tutela del diritto alla salute dell’autore di reato con patologia psichiatrica, e i principi messi in discussione dell’ordinanza di Tivoli sono proprio finalizzati a dare sostanza a tale diritto. Solo con l’esclusiva gestione sanitaria una struttura può infatti avere come criteri organizzativi quelli finalizzati alla cura dei pazienti, senza essere sottoposta a pressioni dettate da altre esigenze. Già la riforma della sanità penitenziaria aveva stabilito il principio della gestione dei presidi sanitari in carcere esclusivamente da parte della sanità pubblica, con medici e infermieri alle dipendenze delle Asl al pari dei loro colleghi che lavorano all’esterno. Nella disciplina specifica per le Rems si è rimasti fedeli a questo criterio, con il passo ulteriore di eliminare la presenza della polizia e dell’amministrazione penitenziaria all’interno della struttura.

La Corte Costituzionale quando si è espressa due anni fa (sentenza 99/2019) sul trattamento dei detenuti con patologia psichiatrica ha affermato la centralità della tutela della salute, fisica e psichica, in ambito penitenziario, consentendo l’accesso a misure alternative al carcere. Una  stessa centralità potrà ora essere ribadita per il diritto alla salute nelle Rems.

Più che mettere in discussione i risultati raggiunti, è necessario ridurre il numero di persone destinate alle Rems, utilizzandole solo per i casi più gravi, come extrema ratio, secondo la previsione della legge 81/2014. De iure condendo sarebbe importante ripensare l’intera disciplina dell’imputabilità, valorizzando la libertà e la responsabilità invece dell’incapacità, come scritto nella proposta di legge n. 2939 depositata alla Camera dei deputati.

fonte: FUORILUOGO

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