In Italia la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, avvenuta a seguito dell’approvazione della legge 81/2014 la cui applicazione è stata definita dal Commissario Franco Corleone, una “rivoluzione gentile” è sottoposta al vaglio di due prossimi pronunciamenti: quello della Corte Costituzionale e della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Pur riguardando casi specifici, le sentenze sono destinate ad avere un impatto sul nuovo sistema del quale conviene riepilogare le novità spesso dimenticate da tutti coloro che ripropongono vecchie prassi. Nessuno a parole vuole tornare agli OPG! Ma come ricorda Basaglia, le istituzioni totali tendono a risorgere in forme nuove (mini OPG?), specie se non si affrontano le contraddizioni, nel caso specifico tra cura e custodia.
Il nuovo sistema ha delineato un sistema di cura e misure giudiziarie di comunità cambiandone nelle prassi il senso.
Nell’assicurare il diritto alla salute a prescindere dallo stato giuridico ha creato un sistema unitario con percorsi che vanno dalla casa della persona all’Istituto di Pena.
Questo implica ragionare per percorsi e non per “posti” o per assegnazioni formali sostanzialmente vuote di visto che si delega poi tutto alla sanità. Nonostante l’impegno di molta parte della giustizia le prassi non sono ancora state innovate, restano sostanzialmente le stesse dell’OPG, licenze ad horas, burocrazie, ritardi, percorsi confusi e talora kafkiani… di un regolamento penitenziario in larga parte inapplicabile. E’ rimasta una concezione custodiale più in linea con l’abrogata legge 36 del 1904 (art. 1. “Debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose a sé o agli altri e riescano di pubblico scandalo”) che con la 180/1978 per la quale “Gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari” e di conseguenza i Dipartimenti di Salute Mentale hanno funzioni di cura e non di custodia.
L’OPG è stato sostituito dal sistema di welfare di comunità, sociale e sanitario di cui fanno parte i Dipartimenti di Salute Mentale al cui interno operano le REMS. Riferimenti di fondo sono la regionalizzazione, l’intervento di prossimità, il numero chiuso, l’assenza di contenzioni fisiche.
La misura giudiziaria non comporta in sé un obbligo di cura e tanto meno di coercizione. La cura della salute è basata sul consenso, partecipazione, protagonismo, responsabilità reciproca e la libertà del paziente e dei terapeuti. Il riferimento è la legge 180/1978 che viene applicata qualora ricorrano le condizioni per un Trattamento Sanitario Obbligatorio.
Un nuovo modo di procedere che mette sicuramente in difficoltà chi opera con altri riferimenti e metodi e tuttavia indica una strada nuova per l’esecuzione penale centrata su responsabilità, motivazione, diritti/doveri, recovery e che può aprire una pagina nuova nella concezione della pena, nel momento in cui diviene incontro, inclusione sociale, mediazione, conciliazione, riparazione possibile. Un superamento della visione giustizialista, segregante del carcere per una linea dove il rispetto della dignità della persona parte dall’evitare il sovraffollamento causa di molti problemi comportamentali. Quindi come le REMS quando un carcere a numero chiuso?
Il sistema trainato della psichiatria di comunità, pur gravata da una inconcepibile posizione di garanzia a carico dello psichiatra, ha definito nuovi percorsi nei quali devono essere valorizzate le componenti sanitarie, Carta dei Servizi, Regolamenti delle REMS, Progetti Terapeutico-Riabilitativi Personalizzati, strumenti nuovi come Budget di Salute promossi anche da nuove risorse e investimenti in personale. Una terapia basata sulla responsabilità reciproca e diritti/doveri della persona e della comunità che cura. Occorre ridurre drasticamente l’utilizzo delle misure di sicurezza provvisorie e favorire tutte le dimissioni dalle REMS, a volte bloccate per mancanza di progetti, ma anche di documenti, reddito, casa, lavoro. Tutte condizioni che non dovrebbero rilevare ai sensi della legge 81/2014 (art 133 c.p. comma 2 punto 4).
Ma non basta occorre prevedere il superamento del “doppio binario”, abrogare la non imputabilità, concetti non scientifici come pericolosità sociale e strumenti come le misure di sicurezza. Quelle detentive sia nella loro natura provvisoria, che in quella definitiva sono lesive dei diritti in quanto molto rigide non prevedendo alternative previste ad esempio per la detenzione che può essere domiciliare e prevedere diverse forme di applicazione. La libertà vigilata può essere prorogata sine die, come se la persona con disturbi mentali autrice di reato non possa più essere un libero cittadino.
Nessuno deve essere detenuto “sine titulo”, nessuno deve essere in lista di attesa per la presa in cura da parte dei Dipartimenti di salute mentale. Si trovino le sedi programmatorie e gestionali nuove per risolvere questi problemi (secondo il DAP 98 persone su circa 53mila detenuti) ma senza drammatizzazioni.
La questione della salute mentale in carcere, comprese la dotazione, lo stato delle Articolazioni per la Tutela della Salute Mentale deve essere affrontata prevedendo adeguate alternative come previsto dalla sentenza 99/2019 della Corte Costituzionale verso la quale vi è la massima fiducia. E anche questa volta un raggio di sole potrebbe spuntare fra le nuvole.
L’Autore Pietro Pellegrini è Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl Parma