In una fase delicata, in cui gli operatori sanitari stremati iniziano a intravedere la luce in fondo al tunnel, osserviamo con grande apprensione l’allentamento delle restrizioni che rischia di vanificare gli sforzi fatti
Gli operatori sanitari e sociosanitari sono i protagonisti principali dell’estenuante lotta alla pandemia che da più di un anno sta condizionando il benessere fisico, sociale, economico, psichico dei cittadini. Con la loro dedizione, competenza e professionalità stanno sempre più faticosamente contrastando le conseguenze nefaste di una malattia infettiva che ci ha colti impreparati da un punto di vista scientifico, clinico, organizzativo e strutturale.
Nella prima ondata pandemica gli operatori sanitari hanno lavorato in un contesto di riorganizzazioni drammatiche e senza precedenti, inizialmente privi delle adeguate garanzie di sicurezza per le carenze delle normali dotazioni di protezione individuale: mascherine, guanti e calzari in alcuni momenti erano introvabili persino negli ospedali.
Come conseguenza di tutto ciò abbiamo assistito anche a un aumento esponenziale dei carichi di lavoro: ferie non godute, riposi mancati, condizioni di lavoro complicate dall’avvicendarsi di nuovi riassetti organizzativi che hanno previsto e prevedono trasferimenti improvvisi del personale.
A fronte di tutto ciò, il governo e le Regioni hanno messo in campo prevalentemente programmi di reclutamento di personale a termine e senza una vera prospettiva di stabilizzazione.
Il potenziamento del territorio, da molti scoperto tardivamente come avamposto strategico fondamentale per prevenire l’affollamento negli ospedali, ha avuto i suoi effetti benefici solo in quei pochi territori dove sono state istituite un numero adeguato di unità speciali di continuità assistenziale, mentre i medici di medicina generale, troppo spesso isolati, senza mezzi e scarsamente sostenuti dal sistema, hanno retto con grande fatica l’impatto con il contenimento domiciliare del contagio.
I numeri oggi ci dicono che siamo ancora al di sopra delle soglie critiche di capienza delle terapie intensive: fino a poco fa parlavamo di oltre tremila ricoverati a fronte di un limite soglia di allarme che è di 2.500. I ricoverati positivi superano le 22mila unità distraendo da tempo risorse a tutte le patologie non Covid che, non diagnosticate e non trattate, rischiano di diventare una crescente causa di mortalità indiretta da Covid-19.
Anche la campagna vaccinale, che rappresenta una grande speranza per il Paese, sta decollando più lentamente del previsto e a oggi non siamo ancora riusciti a vaccinare tutta la popolazione fragile.
Per questo in una fase delicata, in cui gli operatori sanitari stremati iniziano a intravedere una luce in fondo al tunnel, osserviamo con grande apprensione l’allentamento delle restrizioni che rischia di vanificare gli sforzi fatti.
I decessi giornalieri sono ancora molto alti, in totale sono ormai 121mila i morti causati dalla malattia Covid-19, e non possiamo permetterci di abbassare le difese per favorire un’accelerazione sulle riaperture che, pur comprensibile in termini di tenuta economica e prima ancora sociale del Paese, potrebbe causare una nuova grave ondata con l’approssimarsi della stagione estiva. I professionisti hanno bisogno di allentare l’emergenza per ripensare i propri servizi e l’organizzazione; la tensione è al limite e hanno bisogno del respiro che la pandemia sta sottraendo a loro e ai loro assistiti.
Michele Vannini è segretario nazionale Fp Cgil, Andrea Filippi è segretario nazionale Fp Medici
fonte: Collettiva