La crisi pandemica ha messo in evidenza l’importanza di una robusta rete pubblica di welfare e i tanti limiti di tale rete nel nostro Paese. Ma come procedere per rimediare? Più risorse e più intervento pubblico sono, certamente, necessari, ma non bastano. Dirimenti sono le modalità di erogazione delle prestazioni.
Superare il modello tradizionale
Nonostante le tante esperienze di successo, il modello tradizionale di intervento pubblico nel welfare troppo spesso si è caratterizzato per la presenza di rapporti gerarchici, che ignorano la voce degli utenti, dei dipendenti e della più complessiva cittadinanza. Anzi, in molte occasioni, gli utenti rischiano di trovarsi in posizione di sudditi. Diffuse sono, altresì, modalità di gestione impersonali e burocratizzate, più attente all’ottemperanza delle procedure che alle esigenze di relazione e di cura dei singoli. Quando poi interventi personalizzati hanno luogo la tentazione del paternalismo è sempre in agguato. Peraltro, il modello tradizionale appare sempre meno efficace alla luce del mutamento dei bisogni, la cui soddisfazione richiede il coinvolgimento attivo dei singoli soggetti (basti pensare alle malattie croniche).
Le (non) logiche del quasi-mercato
Non meno problematica appare la via imboccata negli ultimi decenni di affrontare le carenze del pubblico attraverso il ricorso a meccanismi di quasi-mercato. Per “quasi-mercato” si intende l’introduzione di elementi di mercato all’interno del settore pubblico. Il rischio è di aggiungere alle carenze tipiche del pubblico quelle del privato.
Per “quasi-mercato” si intende l’introduzione di elementi di mercato all’interno del settore pubblico. Il rischio è di aggiungere alle carenze tipiche del pubblico quelle del privato.
Alcuni esempi possono essere utili. Nei decenni passati, si è esteso lo spazio delle agevolazioni fiscali al welfare, generando iniquità orizzontali, dato che, a parità di bisogno, le agevolazioni circoscrivono l’accesso ai servizi a chi può pagare, privilegiano i beni e i servizi divisibili e, con essi, il “consumerismo”, nella sottovalutazione dei servizi a rete. Le agevolazioni fiscali sono spesa pubblica, come rende evidente il termine inglese di tax expenditure.
Abbiamo altresì assistito al crescente ricorso alle esternalizzazioni e alle cosiddette remunerazioni incentivanti. Le esternalizzazioni rischiano di peggiorare la qualità dei servizi, in particolare, rispetto alle dimensioni non osservabili, in primis, alla cura. A ciò si aggiungono i rischi di svilimento del lavoro di cura. Preoccupanti, al riguardo, sono i segnali di crescente attivismo dei fondi immobiliari a favore di imprese per il profitto che vogliano investire nelle residenze protette.
Similmente, rispetto alle remunerazioni incentivanti, tralasciamo anche i casi più estremi, ma esistenti, di direttori generali del Servizio sanitario nazionale premiati per tagliare la capacità in eccesso, quando mantenere tale capacità è una ragione dell’intervento pubblico, permettendo di essere più pronti di fronte a shock quali lo scoppio di pandemie. La questione più generale torna a investire la molteplicità di dimensioni di qualità delle prestazioni e la non osservabilità di molte di esse. Il taglio dei costi è più visibile, ovviamente, di quello che il taglio può comportare per i pazienti. Il focus sulle ricompense estrinseche, quale è avere un po’ di denaro in più, potrebbe altresì indebolire le motivazioni pro-sociali.
I quasi-mercati favoriscono la differenziazione fra i migliori e i peggiori.
Ancora, rispetto alle stesse dimensioni di qualità osservabili, i quasi-mercati favoriscono la differenziazione fra i migliori e i peggiori, a discapito della ricerca di un innalzamento medio e diffuso della qualità. In presenza di forti disuguaglianze sociali e territoriali, ciò può condurre ai cosiddetti “effetti Matteo”, con le strutture migliori incamminate in un processo di continuo miglioramento e le peggiori intrappolate nel processo opposto. Peraltro, le strutture apparentemente migliori potrebbero avere fruito di vantaggi dei quali è difficile vantare merito. La bravura delle scuole, per esempio, dipende molto dalla composizione sociale degli studenti.
Invertire la rotta
Data questa situazione, bisogna invertire la rotta. Al riguardo, per chi crede in un welfare basato sui diritti, si dimostra assai promettente la visione di welfare come bene comune. I beni comuni, come ci ha insegnato Stefano Rodotà, sono “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona” e che sono realizzati secondo modalità di gestione che ne riflettono esattamente la natura. Adottare la prospettiva dei beni comuni significa coniugare la dedizione ai diritti fondamentali, con una nuova attenzione alla necessità di assicurare coerenza nel disegno istituzionale. Detto in altri termini, l’assetto di erogazione delle prestazioni deve esso stesso riflettere i valori ricercati.
Adottare la prospettiva dei beni comuni significa coniugare la dedizione ai diritti fondamentali, con una nuova attenzione alla necessità di assicurare coerenza nel disegno istituzionale.
Ciò riconosciuto, cosa cambierebbe per il welfare? Innanzitutto, avendo a che fare con i diritti fondamentali, le prestazioni di welfare andrebbero assicurate a tutti agli stessi termini, senza agevolazioni che beneficino solo alcuni. Certo, non sempre è possibile. Avere un reddito, per esempio, è un diritto, la cui soddisfazione è centrale ai fini del libero sviluppo della persona, ma potrebbe essere impossibile assicurare un medesimo reddito a tutti. La prospettiva dei beni comuni forzerebbe almeno a verificare che nessuno sia escluso. In Italia, ciò potrebbe, per esempio, significare cancellare i requisiti che, nonostante i passi avanti compiuti dal reddito di cittadinanza, continuano a ostacolare l’accesso a molte persone bisognose.
La pluralità dei soggetti coinvolti
Inoltre, se la gestione deve riflettere la natura dei beni, pari voce deve essere assicurata alla pluralità di soggetti che sono coinvolti nelle prestazioni di welfare. Ciò significa che, ferme restando le responsabilità nazionali di finanziamento, di definizione dei livelli essenziali dei bisogni da soddisfare, di monitoraggio e sostegno alle buone pratiche, il livello locale dovrebbe contemplare l’attivazione di un modello partecipato, basato sulla co-programmazione e co-progettazione dei servizi. Come raccogliere altrimenti le voci di tutti i soggetti coinvolti?
La produzione, e con essa le modalità di organizzazione e di remunerazione del lavoro, dovrebbero, altresì, riflettere il più possibile il valore intrinseco dei beni che si producono. In breve, stipendi decenti, valorizzazione dell’ethos pubblico e del lavoro di cura insieme a centralità della relazione con e tra i beneficiari delle prestazioni dovrebbero essere le direttive di marcia, cui proprio, nel riconoscimento della natura dei beni comuni di essere di tutti, si aggiunge l’apertura alle imprese sociali e all’azione volontaria. In questa prospettiva, lo spazio del welfare sarebbe anche lo spazio per forme di vita diverse da quelle tipiche del mercato, con effetti positivi in termini di espansione delle libertà.
Lo spazio del welfare sarebbe anche lo spazio per forme di vita diverse da quelle tipiche del mercato, con effetti positivi in termini di espansione delle libertà.
Infine, un welfare come bene comune richiede che tutti concorrano al finanziamento secondo le proprie possibilità, evitando di rivolgersi allo spazio comune come qualcosa da cui solo attingere benefici privati.
fonte: forward