Morire legati ad un letto: cosa succede a Livorno? di Mario Serrano

Il senso di questa lettera è in una semplice domanda: cos’è oggi il reparto di Psichiatria di Livorno? Premetto che ho iniziato a fare lo psichiatra ad Arezzo nel 1980. Per 15 anni ho poi diretto il servizio di Martina Franca, in Puglia. Dal 1997 al 2017, per 20 anni, ho avuto la responsabilità dei servizi di Salute mentale di Livorno. Per quanto da quattro anni sia ormai in pensione, non posso rimanere indifferente. La scorsa settimana un collega di un’altra Usl toscana mi ha telefonato per avere una conferma su una voce che circola sulla morte per polmonite (non connessa a Covid) di un paziente della Val di Cornia che, ricoverato in psichiatria a Livorno, sarebbe rimasto contenuto al letto per una settimana. Gli ho risposto che non ne sapevo niente. Il giorno dopo ho ricevuto un messaggio di costernazione dal presidente dell’Associazione dei Familiari, che aveva appreso la notizia in questione da un intervento al seminario online della Consulta della Salute mentale.

A quel punto ho cercato notizie sulla stampa, ma non ne ho trovate. Ho fatto qualche telefonata ma non sono riuscito a saperne molto di più. Sembrava che un paziente della Val di Cornia fosse morto dopo giorni di contenzione e che, a distanza di una settimana, nessuna azione era stata promossa, né audit né altro, per chiarire (o almeno discutere in equipe) l’accaduto. Sono rimasto angosciato: morire legati a letto era diventata a Livorno una routine? Come era possibile? Dal 2007 le contenzioni, che erano state comunque negli anni precedenti sempre sporadiche e molto brevi (2-3 l’anno e nessuna mai per più di qualche ora), erano state completamente azzerate tanto che da allora le visite dei servizi che venivano a Livorno per conoscere il nostro lavoro (e solo da Norvegia, Svezia e Finlandia ce ne furono più di 30) terminavano proprio con una riunione con l’equipe del reparto. Volevamo fare proprio in Spdc la discussione finale perché fosse più chiaro che le cose, più o meno belle, che potevano aver visto nel variegato giro tra Csm, Comunità Terapeutica, Percorsi di inserimento lavorativo, Appartamenti supportati, Mutuo Aiuto di utenti e di familiari, non erano dei fiori all’occhiello (i versi di Brecht sulle azalee di Jakob che servivano a coprire il puzzo dei cadaveri, versi tremendi che Basaglia aveva ripreso proprio nell’introduzione di Morire di classe), i fiori all’occhiello d’una psichiatria che nel suo versante più sanitario, con i casi difficili, rimaneva la stessa di sempre.

La suddivisione tra la Salute mentale di comunità (per i pazienti più facili) e la Psichiatria ospedaliera (per i difficili) era proprio il dualismo che cercavamo di evitare: ed era anche il motivo per cui venivano a visitarci dai paesi scandinavi, perché la ricchezza del loro welfare li aveva spinti a moltiplicare i servizi più che a modificarne il funzionamento col risultato di ritrovarsi poi con un sistema di doppio binario che aumentava le prestazioni, ma non eliminava affatto gli aspetti più deleteri della istituzione psichiatrica.

Negli ultimi anni molte cose negative sono accadute nella salute mentale (sia regionale che aziendale), molte decisioni sono state prese fuori dal solco di una tradizione di cui eravamo andati fieri per tanti anni. Non sono un amante delle dietrologie e, in 40 anni di lavoro con vicende umane molto complesse, ho imparato che molti eventi possono concorrere a innescare un processo senza che sia necessario supporre l’esistenza di un progetto, di una volontà esplicita di qualcuno. Visto da troppo vicino, ogni piccolo evento/decisione sembra avere la sua, per quanto opinabile, giustificazione, la sua ragion d’essere, ogni scelta ha il suo più o meno innocente decisore.

Ma se guardiamo dalla giusta distanza questo insieme di fatti (che non sono mai solo meri fatti, sono decisioni, ossia azioni volute da qualcuno) possiamo intravedere un disegno: talvolta emerge un tratteggio che denota indecisione, un disordine di direzioni, un va e vieni, uno zig-zag, come è logico quando si è nel campo della casualità. Talaltra invece questo insieme di decisioni, ripeto, prese ciascuna indipendentemente dall’altra e senza nessuna pretesa che soggiacciano ad un disegno unitario, conscio dei suoi effetti a lungo termine, sembrano comunque perdere la loro casualità. I fatti sono in ordine, in bella fila, secondo una traiettoria così netta da sembrare una freccia. Perché questo avvenga non è necessario che ci sia un piano occulto, basta che ci sia un cambiamento di cultura, una caduta di tensione etica, e allora i diritti passano in seconda battuta, i pazienti perdono la centralità così faticosamente costruita/conquistata, le istituzioni si piegano a priorità diverse da quelle dichiarate: è il gap tradizionale tra il dire e il fare della psichiatria, quello che un tempo chiamavamo la Logica Istituzionale. Negli ultimi 40 anni a Livorno hanno cercato di combatterla insieme operatori, legislatori, amministratori, utenti, familiari: ma oggi è ancora così?

In primis sono arrivate le sbarre alle finestre. Non nere, non tristi, non verticali, come usava in Op, ma bianche, luminose, orizzontali, con quell’inclinazione allegra che mima le persiane delle case di campagna. Poi c’è stato il trasferimento del responsabile che aveva lavorato per l’azzeramento delle contenzioni. Dopo un po’ c’è stata la reintroduzione delle fascette in reparto. L’Avofasam sostiene che durante una riunione a Pisa col Dipartimento aziendale ci sia stata la promessa che sarebbero rimaste inutilizzate. Dopo un poco, però, sono iniziate le contenzioni. Brevi e sporadiche. Poi c’è stato lo sfratto dell’Associazione degli utenti Mediterraneo dalla stanza a loro affidata per poter espletare gli impegni prescritti da una convenzione. In quella stanza alcuni utenti-esperti intervistavano i ricoverati per monitorare la loro esperienza soggettiva del ricovero. La stessa stanza fungeva anche da biblioteca e da punto organizzativo per il servizio di prestito libri negli altri reparti dell’ospedale. Era questo un servizio che veniva garantito da anni da due utenti appositamente formati ed era stato concordato con i caposala e i primari di alcuni reparti del presidio ospedaliero (che potevano avvalersene anche per soddisfare alcuni criteri richiesti per il loro accreditamento).

Poi c’è stato il Covid: le contenzioni sono state prescritte come procedura standard (la banalità del male) per tutti i pazienti, difficili da gestire, che ancora non avevano avuto l’esito negativo del tampone. Poi ci sono stati i corsi di formazione: non più per evitare ma per imparare a fare le contenzioni. Poi ci sono stati gli Audit ma questa volta non erano audit per i casi in cui c’era stata la contenzione ma per i casi in cui, in deroga al protocollo, la contenzione non era stata effettuata. E poi oggi… e non sappiamo ancora bene cosa. Tra qualche mese ci sarebbe una decorrenza importante: i 50 anni dell’esperienza di Arezzo, i 50 anni dal momento in cui un’amministrazione provinciale toscana decise di lavorare per il superamento del Manicomio. Nel far questo si poneva, insieme a Trieste, alla testa di un movimento nazionale di Riforma psichiatrica che sarebbe sfociato dopo pochi anni nella legge 180. Ad Arezzo le contenzioni vennero superate nel manicomio in quegli anni, quindi ben prima che la 180 diventasse legge dello Stato. Oggi sono tornate, malgrado la 180. È del tutto evidente che, in questo genere di cose, le leggi non bastano, e che contano altre cose, le singole persone, certamente, ma anche le istituzioni: Comune, Distretto, Azienda Usl, Regione.

Che in ogni caso, qualsiasi cosa sia accaduta, nessuno se ne tiri fuori.

La lettera e IL COMMENTO DEL FORUM SALUTE MENTALE

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