Astra Zeneca ha radici anche in Italia, dove ha tratto linfa dalla svendita dell’industria farmaceutica alla ricerca di rapidi guadagni. Ricostruendo quella storia si capiscono i lati dell’ottagono che costituisce Big Pharma oggi.
Il potere di chi ha sotto mano la tastiera è assurdo. In un mondo in cui tutti sanno tutto del Covid 19, con annessi e connessi, uno s’immagina di poter contribuire alle cognizioni generali, aggiungendo qualcosa a proposito di Big Pharma, come fosse oggetto di molta attenzione. Big Pharma è un’espressione colorita, diventata abituale nei tribunali americani, soprattutto nelle cause di class action dei cittadini contro i farmaci o i trattamenti colpevoli di morti o di gravi alterazioni per i pazienti. Nella memoria collettiva c’è ancora il caso verificatosi nella seconda metà del secolo scorso di bambini nati con gravi malformazioni agli arti per un sedativo “sicuro” assunto dalle madri nei primi mesi di gravidanza. Si può dire che il pubblico non riesce a liberarsi dalla paura di conseguenze inattese dei farmaci. Ne discutono, ne fanno propaganda soprattutto alcune persone convinte del potere delle imprese farmaceutiche, della loro segreta connivenza, dell’imbroglio finale che esse condividono, speculando, approfittando della vacuità, della pochezza, della corruzione dei governi. Questa precauzione va utilizzata con buon senso. Imputare colpe infami a un complotto segreto – una delle dicerie intorno a Big Pharma – attribuendolo magari alle mene sconosciute di qualche sconosciuto monarca, qualche Grande Fratello, deciso a utilizzare un’arma proibita di distruzione di massa per conquistare altro potere nell’ingenuo mondo della gente perbene – è un’interpretazione dei fatti che esiste ma serve poco. In buona misura è una scorciatoia che non aiuta a capire, ma allontana dall’obiettivo del buon giudizio, ammesso che la scelta migliore sia comprendere i fatti per quel che sono e agire in conseguenza. Colpiti dunque dalla ambiziosa presunzione di saperne più degli altri, abbiamo così provato a dire la nostra su Big Pharma, esercitandoci con alcune domande e alcuni tentativi di risposte.
- Perché non c’è un vaccino italiano?
- Esiste, o esisteva, un sistema farmaceutico nazionale italiano?
- Si trova qualche dritta in un libro: “Il bagnino e i samurai”?
- Che ci fanno i cinesi a Nerviano?
- Che cos’è davvero Big Pharma?
- Quali sono le imprese farmaceutiche che fanno parte di Big Pharma, ammesso che esista?
- Cosa c’entra Zeynep Tufekci?
1. Perché non c’è un vaccino italiano?
La domanda sembra provocatoria, soprattutto adesso, nel momento in cui si diffonde la leggenda di un’imminente soluzione italica. Ammesso che esista, sarebbe un laboratorio dislocato qui o là nello Stivale per non sprecare gli ultimi spiccioli della domanda di vaccini. Al contrario, tutti sanno perché non c’è un vaccino italiano. Perché non siamo stati capaci di farlo. O perché, a farlo, non si guadagnava abbastanza. Chissà poi che non sia stato effettivamente fatto, ma poi se ne sia dimenticato il principio ispiratore in un ripostiglio, o perso in qualche trasloco. Inoltre si riflette, forse malignamente, che è meglio così. Come fidarsi di un farmaco tanto importante, vitale e probabilmente complicato, senza avere alle spalle una ricerca scientifica, una coerente fase di sperimentazione, una sensata convinzione nelle proprie capacità? Tutto vero, ma questo non ci esime dal cercare di capire i motivi. Questa incapacità è un fatto recente o è sempre stato così? Un’industria farmaceutica italiana è mai esistita?
2. Esiste, o esisteva, un sistema farmaceutico nazionale italiano?
Il sistema farmaceutico italiano esiste, esiste da un paio di secoli, analogamente a quello quasi coevo in Germania e in Francia. Anche in Italia sono decine i farmacisti che hanno studiato e cominciato a fornire medicine “scientifiche”ai loro pazienti a partire dai primi decenni dell’Ottocento. Erano perlopiù capaci di manipolare le sostanze, provando e riprovando, tanto coraggiosi da tentare; inoltre sapevano leggere e imparare quello che avveniva altrove. Rare le esclusive, ma diffuse le capacità di cercare, studiare e provare farmaci e rimedi. Il nome più importante è Carlo Erba. Nato nel 1811 a Vigevano, laureato a Pavia. Farmacista del milanese, grandi vedute, spirito imprenditoriale schumpeteriano, finanziatore del Politecnico. Uno dei suoi 6 fratelli, Luigi, pianista di vaglia, ne continua il lavoro, si lega all’aristocrazia milanese – Castelbarco, Visconti. Sarà un nipote Visconti arrivato alla testa della società Carlo Erba a venderla alla potente Montedison, appena nata da una fusione, dando la colpa al sindacato che pretende troppo con un suo contratto di lavoro nazionale. Un altro Visconti, parente del precedente, quindi pronipote di Carlo Erba il fondatore, ha da sempre opinioni politiche diverse dalla famiglia e dopo aver diretto La Terra trema e Ossessione, dirige anche Rocco e i suoi fratelli; si chiama Luchino, Luchino Visconti.
Di mano in mano, Carlo Erba finisce prima a Montedison, poi a Kabi Pharmacia poi ad Astra Zeneca e poi a Johnson & Johnson. Non è la sola; c’è un altro ramo della maggiore industria farmaceutica nazionale da non dimenticare.
La potente nuovissima Montedison nasce nel 1965 ed è la fusione della chimica nazionale, Montecatini e della maggiore compagnia elettrica italiana, Edison, piena di denaro contante per aver venduto centrali e linee elettriche e contatori allo Stato e cioè a Enel per la legge sulla nazionalizzazione elettrica del 1962. Piena di contante e senza idee. Montecatini possiede da decenni metà Farmitalia, seconda grande impresa farmaceutica nazionale che dalla famiglia Schiapparelli era passata nel lontano 1936 in proprietà a una società paritetica tra la stessa Montecatini e i francesi di Rhône Poulenç. Il destino è scritto. Acquisita l’intera società, data la disponibilità di capitale fresco ex elettrico, avendo liquidato il socio francese, Montedison si trova in mano due società farmaceutiche, le maggiori in un paese in cui gli altri pezzi forti si appoggiano a imprese straniere. Solo nel 1978 si realizza la fusione Farmitalia – Carlo Erba. Se c’è voluto tanto, la causa apparente è qualche pasticcio di Borsa. Sotto è probabilmente l’insofferenza di direttori e ricercatori a riallinearsi nel nuovo gruppo, rinunciando a ricerche e sviluppi in corso. Dopo tutto è la storia di tutte le fusioni dell’epopea capitalistica, ma è particolarmente difficile in un ambiente impegnativo come quello dei farmaci per la vita delle persone. Nel 1987 delisting, cioè uscita dalla Borsa, tanto per evitare che qualcuno possa chiedere conti o ricchi dividendi e acquisto del 41% di Antibioticos, impresa spagnola; i responsabili montedisini hanno compreso che è necessario allargarsi e crescere di peso per fronteggiare le malattie e le cure, nel mondo globalizzato o almeno nell’occidente ricco, per non rimanere in seconda fila; se c’è un momento per un Big Pharma nazionale, è proprio questo. Solo che, dopo un tira-e-molla (compro io o compri tu?) con gli svedesi di Kabi Pharmacia, sono questi ultimi a comperare tutto. In Montedison è però cambiato molto, per la terza o la quarta volta in dieci anni. Ora si chiama Enimont. A vendere, adesso, è il nuovo leader di Montedison, che come si vedrà al prossimo capitolo faceva da giovane il bagnino. Da bagnino a capo di Montedison ed Enimont? Una carriera favolosa.
3. Si trova forse qualche risposta in un libro: “Il bagnino e i samurai”?
Un bagnino di bell’aspetto, a Cesenatico, fa innamorare una signora di buona famiglia, anzi buonissima: è una Ferruzzi. Il bagnino se la sposa e abbandona le spiagge cambiando mestiere. Diventa allievo e collaboratore di Raul Gardini oltre che suo cognato. Si chiama Carlo Sama. La famiglia dopo un po’ liquida Gardini, per le sue mani bucate e l’ego esagerato che lo ha portato a uno scontro frontale con i poteri costituiti del capitalismo italiano – banca e industria – e affida quel che rimane dell’impero Ferruzzi dilapidato proprio a Sama. Il compito di Sama è complicato. Gardini, subito prima di essere estromesso dalla famiglia, in un’insolita partita a pari e dispari ha appena vinto Enimont, cioè l’acquisto dell’intero impero Montedison + Eni: la chimica, la finanza e il resto. La mano ora tocca a Sama. Questi chiama Garofano, un manager qualsiasi, come responsabile operativo e trattiene per sé le scelte finanziarie. Trascurando il resto, che sarebbe poi Tangentopoli dove, uno dopo l’altro, incappano tutti i personaggi rilevanti della storia, anche tragicamente – spesso la farsa si trasforma in tragedia, come tutti già sapevano, ben prima di Carlo Marx – qui occorre ricordare solo la vendita agli svedesi di Farmitalia, Carlo Erba compresa, per duemila duecento miliardi di lire. L’indebitamento bancario di Enimont, alla cui copertura era destinato, superava quell’entità da dieci a quindici volte. Così dopo aver svenduto il gruppo farmaceutico, la famiglia Ferruzzi è costretta a cedere tutto il resto consegnando le chiavi, cominciando da quelle della grande chimica appena conquistata. Trascurando altri dettagli, per divertenti (o tragici) che siano ed evitando di perdere tempo sui disastri industriali, sociali, sindacali, scientifici, umani, processuali legati molto spesso alla caduta di Enimont, torniamo a bomba.
Pharmacia Kabi, il compratore svedese che fa parte del gruppo Precordia, ha presunto troppo del suo appetito: non è in grado di smaltire da solo Farmitalia e Carlo Erba. Quindi, gli svedesi che ormai, cambiato nome e modello, si chiamano Astra, si associano, seguendo la moda del tempo, agli inglesi di Zeneca che a loro volta sono un risultato dello spacchettamento in tre parti dell’inglese, di antichi natali, Imperial Chemical Industries, ICI. Il gruppo farmaceutico italiano, ormai filiale anglo-svedese è ben presto smantellato nei fatti nonostante tutte le promesse; vengono così dispersi i samurai, cioè i ricercatori, ricordati nel titolo, “Il bagnino e i samurai” dello studio di Daniela Minerva e Silvio Monfardini, edito da Codice, dedicato alla precocissima fine della ricerca biomedica in Italia. Insieme ai samurai è disperso il loro lavoro generoso, la ricerca, che si sforzava di conoscere, imparare, insegnare. Tutto per aria, tutto sprecato, perché la ricerca non offriva un guadagno immediato che è quello di cui gli azionisti hanno spesso un bisogno disperato. Nei consueti stravolgimenti dell’industria farmaceutica talvolta qualche pezzo viene dimenticato; è il caso di Nerviano e dei cinesi. Che fanno i cinesi nella farmacopea lombarda? E perché proprio Nerviano?
4. Che ci fanno i cinesi a Nerviano?
Al disastro generale sfugge solo Nerviano, forse troppo piccolo o scomodo, o troppo marginale per far gola a Big Pharma che intanto si sta costituendo anche in Europa. La storia è troppo nota per raccontarla di nuovo, anche se può servire di ammonimento. A difendere l’impianto di ricerca di Nerviano, (un paese sperduto nel milanese) non certo uno dei maggiori punti di ricerca del complesso intero ceduto da Enimont agli anglo-svedesi, si muovono generosi esponenti dei Corpi Intermedi. Costoro (sindacati, associazioni volontarie, università, partiti, organizzazioni di culto) si preoccupano – pensate un po’ – per gli 800 dipendenti, molti dei quali ricercatori. Nerviano (chiamiamolo così; in realtà il nome professionale è NMS group, Nerviano Medical Sciences): Nerviano è rilevato dalla Congregazione dei figli dell’Immacolata Concezione, un ente vaticano che copre gli interessi di Medical Sciences, Fondazione Regionale di Ricerca Biomedicale (in sigla FRRB) che compete alla Regione lombarda – siamo ai tempi del Celeste, notissimo presidente di quest’ultima. Vi sono dunque interessi dagli incerti confini ma orientati al mondo cattolico. Interessi di altro tipo riguardano i creditori: in particolare – sembra – Unicredit che è fuori per centottanta milioni di euro, Banca Popolare di Sondrio che soffre per venti e Finanziaria Finlombarda esposta per trentacinque. Il tira-e-molla si perpetua per una ventina d’anni, finché la mossa risolutiva è compiuta dal Chengdu Bonded Logistic Investment, una apprezzata filiale del Chengdu High Tech Investment che fa capo allo Shangai Advanced Research Institute, un caposaldo dell’accademia delle scienze cinese, emanazione dello stato cinese. Costoro, a partire dalla locale free zone non lontano da Shangai, avrebbero configurato il collegamento tra un forte nucleo di imprese farmaceutiche cinesi, posto a un capo della via della farmaseta, gettando l’altro capo presso Milano, prendendo il controllo del centro di ricerca di Nerviano, in modo di essere presenti agli sviluppi del farmaco in Europa con un punto di attenzione di qualità. Così avrebbero acquistato il novanta per cento delle azioni di Nerviano, con una spesa di trecento milioni, lasciando il resto a FRRB e quindi alla regione lombarda. Che alla fin fine sia lo stato cinese che sceglie di entrare da una porticina posteriore nel Big Pharma d’Europa?
Storie di tutti i giorni.
5. Chi è, cos’è quel Big Pharma di cui tanto si discute?
Eccoci al punto. Non dobbiamo pensare a Big Pharma come un circolo degli scacchi al quale gli interessati, con titoli appropriati, possano iscriversi. È piuttosto una comodità che ci prendiamo noi estranei per parlare in modo comprensibile delle principali imprese del settore, con interessi multinazionali e forza d’intervento. Le imprese multinazionali che fanno parte di Big Pharma sono attualmente (a occhio) non meno di dieci e non più di venti. Chiedono l’iscrizione altre grandi imprese indipendenti che attendono solo l’occasione per debuttare in società. Grandi agglomerati cinesi, russi, indiani, talvolta giganteschi, non sono ancora ammessi, anche perché di essi – dei loro numeri – si sa troppo poco. Difficile essere più precisi perché il quadro mondiale della Grande Farmacia è fluttuante. Le imprese del club si sfiorano, si alleano, si litigano, si pigliano. Soprattutto si copiano, cercando il farmaco che può consentire agli azionisti di guadagnare parecchio. Nell’ultimo numero di Fortune 500 global 2020 le società prese in considerazione sono tredici. Un’indicazione tra le altre, considerata per molto tempo la più affidabile.
Importante è conoscere l’apertura spaziale del Big Pharma. Di solito si guarda alle maggiori imprese del settore, con l’accortezza di scorporare le parti, sempre o quasi presenti, che riguardano attività diverse dalla farmacopea propriamente intesa. Per esempio Johnson & Johnson che passa per la maggiore deve essere depurata dei profitti dipendenti da prodotti come gli oli solari o la cera per pavimenti. I conti più accurati sono di riviste specializzate che a loro volta rientrano apertamente in blocchi d’interessi finanziari a tutto campo. Il conto di Forbes, che bada al contante, riguarda trentacinque società del settore farmaceutico con un livello di vendite superiore ai dieci miliardi di dollari. La distribuzione per nazionalità – ammesso che nel caso di multinazionali la distinzione significhi qualcosa – è che ventidue imprese sono americane, quattro sono tedesche, due britanniche, due svizzere, due giapponesi, una francese, una norvegese, una cinese. La presenza di una sola impresa cinese lascia qualche sospetto: conviene ritenere che siano censite solo le vendite di Big Pharma in Occidente, senza tener conto del resto. Come si è detto, il nome Big Pharma implica disprezzo oltre che ammirazione. Nasce dalla pubblicistica degli Usa che se ne serve per polemizzare con le grandi imprese farmaceutiche del paese, spesso sotto accusa nei tribunali.
Può essere istruttivo mettere a confronto due diverse classifiche: le venti imprese maggiori del settore, nel 2020, tenendo conto delle osservazioni che precedono e la classifica, e le dieci imprese, dieci soltanto, le maggiori del ramo, del 2017. Dal confronto si può cogliere l’andamento generale e la tendenza a crescere e superarsi.
Le imprese prima elencate sono di fatto multinazionali: per multinazionale s’intende la società che agisce in molte parti del pianeta, per vendere i suoi prodotti e per comprare semilavorati da assemblare. Le cronache di marzo hanno attribuito alla chiacchieratissima Astra Zeneca una decina di impianti in diverse sedi, capaci di sfornare il famoso vaccino. Ogni multinazionale a conti fatti accetta di scegliersi una bandiera, o più bandiere per garantirsi una maggiore capacità di movimento, coperture internazionali, libertà nel pagare le tasse; o non pagarne. Questo aspetto del capitalismo attuale è in pratica acquisito universalmente, anche se ogni tanto uno Stato s’inalbera e multa la multinazionale in questione per aver evaso le tasse. Nel particolare settore delle medicine e della sanità è forse più difficile accettare le regole valide per altri settori: gli elettrodomestici, la produzione alimentare, l’abbigliamento, e così via. Nelle ultime settimane si è assistito, per esempio, a un rovesciamento dell’abituale favore di questo o quello Stato per l’impresa “nazionale” che vende all’estero i suoi prodotti; in presenza di un embargo per alcuni prodotti farmaceutici, in particolare i vaccini contro il Covid 19, nella preoccupazione di privarne i propri concittadini, si crea una condivisa avversione (da parte di tutte le parti politiche, liberali compresi) nei confronti dell’impresa così birichina.
6. BIG PHARMA, quali problemi? Quali soluzioni?
Tutte le multinazionali hanno problemi per produrre, vendere, fare i propri comodi. Possiamo immaginare che un’impresa del club Big Pharma ne abbia più di un’altra che agisce fuori, che vende oggetti meno vitali, per esempio automobili. Un’impresa Big Pharma si potrebbe rappresentare, in modo schematico, come un ottagono. Nella realtà, le frecce/direzioni di un Big Pharma sono a volte molte di più e sono certamente diverse, se si mettono a confronto. Con una figura geometrica e un profluvio di parole sarà possibile farsi capire, almeno un po’. Possiamo intendere che ogni lato dell’ottagono rappresenti una direzione dell’impresa; le frecce sono di diversa entità, per descrivere in modo approssimativo gli aspetti più importanti, i flussi di potere di un Big Pharma.
Al primo punto sono gli azionisti. Chi siano gli azionisti non è facile da dire. Ve ne sono di importanti, con rilevanti pacchetti azionari, che decidono sulle nomine e le revoche dei capi al comando: Ceo e President della società Big Pharma. Questi tali azionisti sono di solito fondi azionari con migliaia di partecipanti al Fondo. Per fare un solo nome, ben conosciuto, BlackRock, un Fondo che è presente con importanti partecipazioni in ogni impresa industriale, in ogni banca che conti, nel pianeta occidentale. I Fondi e in genere gli azionisti non vogliono sapere niente se non l’entità del dividendo (e il valore della loro quota all’entrata e all’uscita). L’attività aziendale non li riguarda, si tratti di medicine o di armi.
Al secondo lato del poligono c’è lo Stato o più genericamente il sistema politico che ha una funzione di semaforo. Il semaforo può segnare il rosso, il verde e il giallo, autorizzando o bloccando o rallentando (o accelerando) l’attività del Big Pharma. La direzione/freccia che si occupa di questo sistema di permessi e divieti, che tiene i contatti con lo Stato, ha, come è facile capire, il suo daffare.
Poi, al terzo, ecco i finanziatori, banche o altri creatori di denaro cui si deve garantire un compenso che riduce quello che rimane per gli azionisti.
Quarti e quinti, altri due lati dell’ottagono, operai e ricercatori, pur necessari all’attività, incidono sui profitti e il Ceo, con il President e gli altri collaboratori devono riuscire a risparmiare salari e compensi senza perdere o scontentare gli addetti alla ricerca o trascinare alla vertenza o allo sciopero gli operai (che rappresentano nel nostro ottagono tutti i dipendenti – spesso migliaia di persone – che lavorano nel fare, impacchettare, vendere, traportare, i farmaci dappertutto). Tornando alla ricerca, in parte la si può copiare, ma non è possibile del tutto. Occorrono cacciatori di talenti che dovranno fare il giro delle università (e delle cantine-laboratorio) brulicanti di geniali sconosciuti, per scoprire le novità e assicurarsele prima che arrivi un altro cacciatore di tartufi, con più fortuna. In genere occorrono laboratori e sottoscala sparsi per il mondo, alla ricerca del migliore rapporto spese/profitti ritrovabile nel pianeta. Qui entra in gioco il semaforo, forse più semafori, con permessi, indugi, divieti.
Al sesto posto i concorrenti. Big Pharma detesta e vorrebbe scagliare maledizioni sui concorrenti, ma non può. Allora elabora patti spartitori con loro, si associa, fa compravendite di farmaci e di territori e tra sgambetti e abbracci con amici e nemici, fingendo e occultando, tira avanti. Per vedere come funziona davvero un Big Pharma nel mondo conviene osservare la voce Pfizer in wikipedia. Oppure seguire in un altro wikipedia la storica storia di Zeneca, dalla nascita nell’Ici, Imperial Chemical Industrie, fino all’inglorioso assorbimento da parte degli svedesi di Akzo, passando per i casi dei pesticidi mortali come il Paraquat, decisivo per alcuni lustri, portatore di enormi profitti.
Settimo arriva l’OMS con il seguito di tutte le altre agenzie del farmaco, come l’Ema. Sono burocrazie insopportabili per Big Pharma; gente che non sa niente, non ha mai visto da vicino neppure un alambicco e si vanta e crede di poter decidere della vita e del successo di tutti gli altri, persone e valide imprese. In realtà OMS e consorti non fanno che rallentare il traffico dei brevetti o dei non brevetti sui farmaci e di conseguenza l’andamento delle cure e i profitti. Aveva tutte le ragioni il mai abbastanza lodato Donald Trump quando ha cercato di abolire l’OMS e il resto, senza però arrivare al risultato finale.
Ottavo, ultimo lato dell’ottagono è quello dei malati. Costoro sono – siamo – veramente fastidiosi per Big Pharma: se potesse abolirci del tutto, una volta per tutte, lo farebbe volentieri. Ma non si può. Le religioni, l’etica dei non religiosi – tutti quei comunisti! – lo impedisce. Ma chi paga se non ci sono più i malati? Chi comprerà i farmaci? Basterà lo Stato, basterebbero gli Stati per tutti i cittadini? Chi s’inventerà qualche male?
Illustrazione a cura di Cristina Povoledo
Per finire con un controcanto:
7. Che dire degli errori che hanno aiutato il virus?
In un lungo articolo con questo titolo, pubblicato da The Atlantic e ripreso da Internazionale 13-18 marzo, Zeynep Tufekci ci mostra alcuni di quegli errori. I suggerimenti sono semplici; semplici e assai poco ascoltati. Il più importante di tutti è quello di stare all’aperto il più possibile, ma è poco seguito e molto temuto, come si vede con la drastica chiusura degli spazi aperti in molte città. Dal testo della sociologa abbiamo ricavato qualche altro principio che serva come antidoto per tutte le cattiverie su Big Pharma che precedono. Un primo consiglio è quello di “rafforzare le nostre difese” contro tutto quello che può indebolirle, “sia contro future pandemie sia contro le numerose sfide politiche, ambientali, sociali e tecnologiche che abbiamo davanti, nessuno di questi problemi è irrisolvibile, ma prima dobbiamo conoscerli”. Poi ci viene suggerito un principio essenziale: la riduzione del danno. “Se c’è un bisogno umano insoddisfatto, non possiamo semplicemente augurarci che sparisca, dobbiamo semplicemente consigliare alle persone come fare quello che vogliono in modo più sicuro”. Infine c’è un’esortazione: mettercela tutta per sperare in un futuro diverso. “Dopo un anno così faticoso è difficile per tutti – compresi gli scienziati, i giornalisti e le autorità sanitarie – immaginare questa fine, sperare…. Miliardi di persone ….. hanno sopportato le scuole chiuse, l’impossibilità di vedere i propri cari, la perdita del posto di lavoro, l’assenza di attività comuni, la minaccia e la realtà della malattia e della morte”. Sperare è possibile?
fonte: SBILANCIAMOCI.INFO