I gruppi di popolazione più svantaggiati potrebbero essere a maggior rischio di morbosità e mortalità per infezione da SARS-CoV-2 a causa delle condizioni di vita e di lavoro e delle barriere di accesso all’assistenza sanitaria. Uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità pubblicato sul numero di febbraio dello European Journal of Public Health analizza l’impatto dell’epidemia da COVID-19 sugli individui stranieri, inclusi i migranti economici, i viaggiatori di breve durata e i rifugiati, attraverso i dati del sistema di sorveglianza integrata dei casi COVID-19 confermati in laboratorio diagnosticati in Italia tra il 20 febbraio e il 19 luglio 2020.
Dall’analisi di 213.180 casi di COVID-19, che comprendevano 15.974 (7,5%) cittadini non italiani, è emerso che i casi non italiani sono stati diagnosticati circa due settimane dopo (data mediana della diagnosi = 1 aprile, range interquartile (IQR): 20 marzo-18 aprile) rispetto ai casi italiani (data mediana della diagnosi = 14 aprile, IQR: 28 marzo-8 maggio). Ritardo che arriva a quattro settimane per i migranti provenienti da Paesi con un basso Human Development Index (HDI) (data mediana della diagnosi = 29 aprile, IQR: 6 aprile-22 giugno).
I dati suggeriscono quindi che le infezioni tra le persone non italiane siano state diagnosticate in modo meno tempestivo, quando la malattia era più avanzata e i sintomi più gravi.
Una tesi supportata dai dati sui ricoveri: gli stranieri hanno mostrato una maggiore probabilità di essere ricoverati in ospedale (rischio relativo aggiustato-RRA = 1,39, IC 95%: 1,33-1,44) e, una volta ospedalizzati, di essere ricoverati in terapia intensiva (RRA = 1,19, IC 95%: 1,07-1,32), con differenze più pronunciate in coloro che provengono da Paesi con basso HDI.
Si è osservato inoltre un aumento del rischio di morte nei pazienti provenienti da Paesi a basso HDI rispetto a quelli italiani (RRA = 1,32, IC 95%: 1,01-1,75), sebbene questa differenza non sia stata osservata nei casi che hanno richiesto il ricovero.
In generale, è stato osservato un gradiente inverso in base al quale il rischio di ospedalizzazione, ricovero in terapia intensiva e morte aumentava al diminuire dell’HDI del Paese di origine.
Una diagnosi ritardata nei pazienti stranieri potrebbe spiegare la loro maggiore probabilità di presentare condizioni cliniche che richiedono ricovero, sia ordinario che in terapia intensiva, nonché la maggiore probabilità di morte osservata in quelli provenienti da Paesi a basso HDI.
Le possibili cause di ritardo nella diagnosi
Sebbene in Italia a tutti i cittadini stranieri è consentito l’accesso ai servizi di emergenza e ad alcuni servizi ambulatoriali, l’accesso a servizi aggiuntivi, compresa l’assegnazione a un medico di base (il più probabile mediatore per la diagnosi precoce) avviene solo in presenza di uno status documentato.
Ulteriori barriere, linguistiche, amministrative, legali, culturali e sociali, possono ostacolare il rapido accesso ai servizi sanitari, portando probabilmente a una diagnosi ritardata. Inoltre, nel contesto della pandemia, gli stranieri potrebbero aver subito ritardi nella diagnosi per timore di restrizione dell’attività lavorativa per isolamento/quarantena.
Queste ipotesi potrebbero in parte spiegare il calo meno pronunciato dell’incidenza osservato dopo l’avvio delle misure di blocco nei cittadini stranieri rispetto a quelli italiani. Infatti, la circolazione del virus nella comunità straniera avrebbe potuto essere maggiore a causa di casi diagnosticati in ritardo che non sono stati prontamente isolati/messi in quarantena in una fase precoce della malattia.
È fondamentale ricordare che garantire e favorire ai cittadini stranieri l’accesso precoce alla diagnosi e al trattamento, così come l’accesso alla vaccinazione anti-COVID-19, potrebbe facilitare il controllo della trasmissione della SARS-CoV-2 e migliorare gli esiti di salute in tutte le persone che vivono nel Paese, indipendentemente dalla nazionalità.
- leggi l’articolo open access “Epidemiological characteristics of COVID-19 cases in non-Italian nationals notified to the Italian surveillance system” pubblicato sul numero di febbraio dello European Journal of Public Health
fonte: EpiCentro
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