Obiettivo principale di questo studio è quello analizzare il tema della tutela della salute in termini di valutazione di politiche pubbliche come complesso sistema di interventi che abbraccia politiche di spesa intimamente interconnesse con il quadro ordinamentale.
L’attore pubblico riveste sempre un ruolo decisivo nella definizione ed implementazione delle politiche sanitarie; lo fa, innanzitutto, selezionando il modello di organizzazione del servizio sanitario, che in Italia è costruito sul principio della universalità.
Tutta la riforma del sistema sanitario nazionale è basata sulla universalità delle prestazioni che devono essere rese in condizioni di eguaglianza e devono garantire parità di accesso, uniformità e globalità di intervento. Per effetto della universalità tutti i cittadini hanno indistintamente il diritto di usufruire dei servizi sanitari, al cui finanziamento partecipano mediante il pagamento di imposte o di contributi obbligatori.
Volendo dare una caratterizzazione di assetto all’attuale Sistema sanitario, si può sostenere che in Italia si realizza un modello pubblico integrato, con completo finanziamento pubblico, solo in parte integrato dall’offerta di strutture private, con o senza finalità di profitto, regolate su base di convenzioni. È sistema composta da strutture e servizi che hanno lo scopo di garantire a tutti i cittadini l’accesso universale all’erogazione delle prestazioni sanitarie.
Questa scelta, che si differenzia in via del tutto radicale dal modello privatistico (modello degli Stati Uniti) comporta la definizione di una complessa governance, che vede coinvolti l’insieme degli attori e delle istituzioni che concorrono alla tutela della salute mediante attività preventive, di diagnosi e di cura.
Negli schemi di rappresentazione degli attori rilevanti che concorrono alla definizione del sistema sanitario, le istituzioni pubbliche, sempre necessarie quantomeno a livello regolativo anche nei modelli privatistici, acquistano nei modelli pubblici, ruolo preminente. Ruolo che, innanzitutto, trae il suo fondamento dall’articolo 32 della Costituzione, dove si prevede che “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, e interesse della collettività e garantisce cure gratuite agli indigenti”; ma che poi trova nell’articolo 117 della Costituzione ulteriore specifica laddove si prevede che le Regioni emanino norme legislative in concorrenza con lo Stato (…).
Queste due disposizioni hanno generato un complesso ordinamento che tutela il diritto alla salute dei cittadini dove Stato e Regioni producono norme di rango legislativo, tendenti definire le regole del gioco. Ed una piena comprensione delle implicazioni che derivano dalle scelte di rango costituzionale non può che essere il necessario passo per introdurre logiche di governo e di gestione del sistema sanitario in linea con le fondamentali tutele dei diritti dei cittadini.
Questo fine il lavoro si articola in tre parti. Nella prima si presentano i dati quantitativi del contenzioso costituzionale Stato Regioni a partire dal 2001 (anno della riforma del Titolo V) ad oggi; nella seconda parte sarà offerta un’analisi qualitativa delle decisioni assunte dalla Corte Costituzionale e delle sue ricadute sulla gestione della sanità e della spesa connessa. Nella terza parte si forniranno i primi dati relativi ai livelli essenziali di assistenza ed alla mobilità regionale.
1.1 Analisi quantitativa del contenzioso
In materia di “tutela della salute”, Stato e Regioni hanno prodotto un significativo contenzioso costituzionale. Dal 2002 al 2020 i ricorsi generati dai conflitti tra Roma e la periferia e presentati nell’anno davanti alla Consulta sono stati 278, con un andamento piuttosto lineare nel tempo (15 ricorsi in media l’anno Graf. 1).
Il dato complessivo dei ricorsi Stato-Regioni segnala un andamento sostenuto del contenzioso costituzionale nel quadriennio 2002/2006 che trova una brusca riduzione nella successiva annualità 2007; si nota ancora che nel triennio 2008/2010 si raggiunge il picco della litigiosità, per poi proseguire un andamento a salti, con la punta di minimo nel 2014.
Guardando lo stesso dato esploso per singole Regioni (graf.2), si evidenzia come nel primo quadriennio Regioni come la Toscana e l’Emilia Romagna abbiano innalzato significativamente il conflitto di attribuzioni con lo Stato nell’intento di aprire spazi normativi alle autonomie regionali e/o di salvaguardare quelli esistenti.
Tra tutte la sentenza n.88 del 2003 con cui la Corte Costituzionale accoglie i ricorsi delle Regioni avverso il decreto ministeriale di riorganizzazione del servizio di Tossicodipendenza. La norma statale, nel giudizio della Corte, comprime la sfera di autonoma organizzazione degli enti territoriali in relazione ai servizi preposti, ed impone l’erogazione di livelli assistenziali diversi ed ulteriori rispetto a quelli esistenti senza seguire le procedure dell’intesa, violando così il principio della leale collaborazione>>. [1]
Via via che si consolida l’orientamento della Corte costituzionale sul contenzioso, entrambe le Regioni riducono fino ad azzerare il numero dei ricorsi.(Graf.3)
Da questi dati possiamo trarre un giudizio di valore e cioè che la litigiosità si è sviluppata secondo un canone fisiologico ed ha portato al confronto di due ordinamenti, quello regionale e quello statale, sfociato in termini costruttivi nell’ultimo decennio dove si assiste ad una assenza di conflitto.
L’osservazione dei dati, con un occhio rivolto alle Regioni sottoposte a commissariamento per l’attuazione del Piano di rientro dal deficit sanitario, fa emergere un quadro frastagliato che tuttavia punta i riflettori su regioni come la Basilicata, Campania, Calabria e Puglia che mantengono valori elevati di contenzioso.
Si tratta ovviamente di dati quantitativi che meriterebbero un’indagine più compiuta e puntuale ma che, se incrociati con i successivi dati relativi all’esito decisionale, trovano conferma negli schiaccianti giudizi di illegittimità costituzionale delle norme impugnate,
Fonte: Ns elaborazioni
Fonte: Ns elaborazioni
Fonte: Ns elaborazioni
Tab 1.- Le decisioni della Corte Costituzionale con sentenza – Fonte: Ns elaborazioni
Regione | Dichiarazione illegittimità delle norme regionali | Questioni non fondate, inammissibili | accoglimento parziale |
Abruzzo | 6 | 3 | 0 |
Basilicata | 8 | 2 | 0 |
Prov Autonoma Bolzao | 2 | 1 | 0 |
Calabria | 12 | 1 | 0 |
Campania | 8 | 1 | 1 |
Emilia-Romagna | 3 | 3 | 0 |
Friuli-Venezia Giulia | 4 | 0 | 0 |
Lazio | 2 | 2 | 0 |
Liguria | 2 | 0 | 0 |
Lombardia | 2 | 4 | 1 |
Marche | 0 | 0 | 2 |
Molise | 5 | 0 | 0 |
Piemonte | 3 | 3 | 1 |
Puglia | 5 | 3 | 1 |
Sardegna | 2 | 1 | 0 |
Sicilia | 2 | 2 | 0 |
Toscana | 2 | 4 | 1 |
Trentino-Alto Adige | 2 | 0 | 0 |
Umbria | 4 | 1 | 1 |
Valle d’Aosta | 0 | 0 | 0 |
Veneto | 2 | 3 | 0 |
Totale | 76 | 34 | 8 |
2 Analisi qualitativa del contenzioso
L’intento di questa elaborazione è quello di offrire una puntuale disamina delle decisioni adottate dalla Corte Costituzionale in materia di tutela della salute, per individuare possibili chiavi di lettura esplicative del conflitto Stato-Regioni.
Ci si interroga, in particolare, su quali siano gli ambiti della tutela della salute maggiormente interessati dal contenzioso e come, nel corso di un ventennio, si siano evoluti gli indirizzi della Corte Costituzionale dopo la riforma del 2001.
Il primo problema che la Corte ha affrontato è stato quello di dover ricondurre la competenza a legiferare in capo allo Stato o alle Regioni, considerata la scelta del legislatore di ripartirle secondo un criterio per materia concorrente.
Una prima sentenza della Corte (Corte cost. 19 – 26 giugno 2002, n. 282), riguardante la Regione Marche che aveva disposto la sospensione obbligatoria della terapia elettroconvulsiva, ha chiarito il rapporto tra la nuova disciplina regionale di dettaglio ed i principi fondamentali della legislazione statale.
La legge regionale venne dichiarata incostituzionale non perché sconfinasse nella competenza statale, ma poiché “non è di norma il legislatore a poter stabilire direttamente e specificamente quali siano le pratiche terapeutiche ammesse, con quali limiti e quali condizioni”, in quanto tale valutazione è rimessa all’autonomia ed alla responsabilità del medico sulla base “delle conoscenze a disposizione”.
Esistono, dunque, principi fondamentali anche di rango non legislativo che non possono non essere considerati.
Chiarito e ribadito con più sentenze della Corte Costituzionale quale è il confine tra principio fondamentale e norme di dettaglio, si è subito posto il tema di individuare i principi costituzionali con cui risolvere il conflitto Stato – Regioni all’interno del corrispondente ambito materiale “tutela della salute”.
Al quesito su quali fossero i nuovi limiti posti dalla Costituzione alla legislazione regionale, la Corte segnala come la risposta deve muovere non tanto <<dalla ricerca di uno specifico titolo costituzionale di legittimazione dell’intervento normativo, quanto, al contrario, dalla indagine sulla esistenza di riserve, esclusive o parziali, di competenza statale>> desumibile dall’analisi del secondo e terzo comma dell’articolo 117. (Corte cost. 19 – 26 giugno 2002, n. 282, cit.).
In altri termini, se prima lo Stato impugnava la legge regionale e l’onere di dimostrarne la competenza ricadeva sulla Regione, con il nuovo Titolo V, la ricerca di riserve statali costituisce il limite negativo alla potestà legislativa regionale, in assenza delle quali non si dubita che la competenza legislativa sia regionale.
Se l’affermazione del principio della riserva avesse trovato un’applicazione radicale avrebbe però finito con il << limitare l’attività unificante dello Stato alle sole materie espressamente attribuitegli in potestà esclusiva o alla determinazione dei princìpi nelle materie di potestà concorrente>> (Corte cost. 1ottobre 2003, n. 303).
Con la sentenza n. 303 del 2002, la Corte Costituzionale prende atto che una interpretazione così restrittiva significherebbe assicurare alle competenze legislative delle Regioni garanzie ferree; il che vorrebbe anche dire svalutare oltremisura istanze unitarie, che pure in assetti costituzionali fortemente pervasi da pluralismo istituzionale, giustificano, a determinate condizioni, una deroga alla normale ripartizione di competenze (…).
Il principio della riserva deve conciliarsi con un altro orientamento che la Corte costituzionale ha sviluppato, legato, in particolare, al principio costituzionale della sussidiarietà. Se il fine è quello di andare alla ricerca di una riserva di competenza statale, bisogna però non eccedere in costruzioni interpretative, dirette a limitare l’attività dello Stato alle sole materie di legislazione concorrente ed esclusive.
La sussidiarietà, quindi, viene intesa in senso ascendente per attrarre materie non espressamente elencate nei commi 2 e 3 dell’articolo 117 Cost., individuabili in corrispondenza, appunto, di un interesse nazionale prevalente.
La Corte elabora, poi, un terzo principio costituzionale, quello della prevalenza (Corte cost. 23 dicembre 2003, n. 370), che viene oggi mediato con la sentenza n. 303/2003 in materia di sussidiarietà.
Il criterio della prevalenza, si è detto, porta ad una risolidificazione del riparto di competenze in materia di tutela della salute. Se prima era liquefatto dalla flessibilità e dalla trasversalità, la Corte afferma che, in presenza di più interessi, occorre individuare la materia prevalente. Se c’è una materia che attrae più delle altre, ne consegue che tutta la regolamentazione transita a favore dell’ente che è portatore di quell’interesse. L’effetto è quello di dare prevalenza ad una materia rispetto ad un’altra.
Il tratto peculiare del criterio della prevalenza consiste nella diversa funzione ancillare all’esito decisionale. La prevalenza non costituisce uno standard di procedura da seguire per arrivare ad una decisione; non si pone cioè come la sussidiarietà legislativa che indica l’esistenza di un presupposto e la conseguente procedura per elaborare una decisione. Il criterio della prevalenza elaborato dalla Corte è esso stesso una decisione: in quel caso la Corte non argomenta sulla base di quali motivi o con quali procedure bisogna individuare la materia prevalente, ma in pratica esamina ciò che ha davanti e rende il responso.
Gli scopi normativi, assunti alla base di questo lavoro, ci portano a racchiudere in un quadro logico di sintesi le considerazioni tratte dalla giurisprudenza costituzionale proprio per focalizzarne la complessità. Muovendo dalla sussidiarietà ascendente, principio con cui lo Stato entra in gioco su qualsiasi norma, a prescindere dall’essere ricomprese nelle materie elencate all’articolo 117, 2 e 3 comma, il primo criterio da adottare è quello della prevalenza.
La confluenza nelle leggi o nelle loro singole disposizioni di interessi distinti, che ben possono ripartirsi diversamente lungo l’asse delle competenze normative di Stato e Regioni, comporta che la Corte non possa esimersi dal valutare, anzitutto, se una materia si imponga alle altre con carattere di prevalenza (Corte cost. 28 gennaio 2005, n. 50 e 23 dicembre 2003, n. 370, cit.).
Quando non sia possibile concludere nel senso appena indicato, si verifica un’ipotesi di “concorrenza di competenze” (Corte cost. 28 gennaio 2005, n. 50, cit.), la quale esige di adottare il “canone della leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze” (Corte cost. 27 marzo 2009, n. 88; Corte cost. 8 giugno 2005, n. 219; Corte cost. 22 luglio 2010, n. 278, ma vedi pure la sentenza n. 140/2015 e la n. 7/2016).
Anche la sussidiarietà legislativa altera il riparto di materie, ma presuppone che la compressione dell’autonomia regionale sia compensata da una collaborazione forte con lo Stato (sent. n. 303/2003, cit.)
Da questo quadro interpretativo, che mette in relazione il criterio della sussidiarietà ascendente e della prevalenza con il canone della leale collaborazione, scorriamo alcune delle sentenze della Corte costituzionale riferendoci a quattro ambiti di maggior rilievo:
- le strutture sanitarie;
- il personale sanitario;
- i livelli essenziali di assistenza;
- i ticket sanitari.
2.1 Le strutture sanitarie
Un primo gruppo di sentenze della Corte costituzionale consentono di apprezzare il quadro valutativo adottato in materia di strutture sanitarie.
La tipologia di contenzioso che si sviluppa in questo ambito proprio della materia “tutela della salute” è diretto a chiarire quali siano i confini tra norme di principio fondamentale, di competenza dello Stato, e legislazione di dettaglio, di competenza delle Regioni.
La Corte afferma che i requisiti minimi necessari per autorizzare e accreditare le strutture sanitarie sono norme di principio e, quindi, di competenza statale proprio per garantire uniformità di condizioni e adeguata concorrenzialità tra strutture pubbliche e private (sentenza n. 387/2007).
Sullo stesso solco vengono poi decise ulteriori questioni che hanno portato a chiarire le competenze ripartite: sul tema dell’autorizzazione e dell’accreditamento delle strutture (sentenze n. 292/2012 e n. 238/2018); sul regime derogatorio nella fase di transizione dall’accreditamento provvisorio a quello definitivo (sentenza n. 161/2016); sulle particolarità presenti negli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico in fondazioni di diritto pubblico (IRCCS) (sentenza n. 208/2015).
In tutte queste fattispecie la Corte ha ribadito la necessità per la legislazione regionale di muoversi secondo i principi fondamentali dettati dall’ordinamento statale.
In questo ambito particolare interesse ha suscitato la decisione della Corte che si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, della legge della Regione Puglia 18 dicembre 2018, n. 66 (Disposizioni sul servizio di pronto soccorso e di continuità assistenziale) (sentenza n. 53/2020). La disposizione impugnata stabiliva che «presso tutti i presidi ospedalieri dotati di pronto soccorso, in adiacenza a quest’ultimo, è collocata una sede del servizio di continuità assistenziale, cui compete la gestione delle richieste caratterizzate da bassa criticità». Tale norma è stata sottoposta al vaglio della Corte in quanto avrebbe invaso la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l).
La Corte ha dato ragione alla Regione in quanto il servizio di continuità assistenziale (già guardia medica) costituisce una articolazione della medicina generale e si configura come uno specifico livello essenziale, proprio perché ha la funzione di garantire a tutti i cittadini l’assistenza sanitaria svolta dal medico di medicina generale e dal pediatra di libera scelta nelle ore in cui il servizio non è da essi assicurato (sentenza n. 157 del 2019).
La norma impugnata, prefigurando una diversa organizzazione a livello regionale del servizio medico di continuità assistenziale, non incide, di per sé, sulla disciplina dell’attività professionale, ricadente questa nella contrattazione collettiva e quindi nell’ambito dell’ordinamento civile. Detto in altri termini la disposizione non invade ambiti costituzionalmente riservati allo Stato (ex plurimis sentenze n. 256 del 2012; n. 94, n. 43 e n. 8 del 2011; n. 308 del 2009), limitandosi ad impegnare l’amministrazione regionale a promuovere, nel rispetto della disciplina statale e delle norme della contrattazione collettiva, le azioni necessarie per il conseguimento di un apprezzabile obiettivo organizzativo”.
2.2 Personale sanitario
Ulteriore ambito di intervento normativo ha interessato il personale sanitario dove è possibile rintracciare, con una certa frequenza, l’applicazione dei principi di prevalenza e di sussidiarietà per definire i limiti posti dalla Costituzione alla produzione normativa regionale.
L’orientamento della Corte, costruito sulla regola del concorso pubblico, è stato ribadito più volte sia nell’accesso alla dirigenza medica (sentenza n. 81/2006) sia nell’introduzione di norme di spoil system (sentenza n. 27/2014). L’orientamento restrittivo della Corte si è, quindi, riflesso sulla delimitazione di un perimetro di deroga al principio del concorso pubblico assai stringente (sentenza n. 110/2017).
La stipula dei contratti a tempo determinato (sentenza n. 77/2011), le modifiche in materia di orario di lavoro del personale del SSN (sentenza n. 72/2017), la qualificazione del rapporto di lavoro nel confine tra autonomia e subordinazione (sentenza n. 121/2017), il regime di esclusività con il SSN (sentenza n. 238/2018), la nomina dei vertici aziendali (sentenze n. 87/2019 e 27/2014) sono tutti temi attratti alla competenza del legislatore statale.
L’applicazione dello stesso principio della prevalenza ha portato però a riconoscere anche in capo alle Regioni spazi normativi di intervento, laddove è emersa l’esigenza di rendere peculiari figure professionali da impiegare, tipizzandone le esperienze acquisite (sentenza n. 20/2020), nonché di stabilire titoli ulteriori per l’accesso alla professione medica (sentenza n. 38/2020).
La Corte ha riconosciuto la potestà legislativa alle Regioni nell’avviareinoltre progetti sperimentali finalizzati all’inserimento di taluni trattamenti (nel caso di specie, trattamenti osteopatici) nell’ambito delle discipline ospedaliere senza con questo introdurre nuove figure professionali (sentenza n. 209/2020).
2.3 Tutela multilivello dei LEA
Il principio di leale collaborazione, indicato nelle premesse di questo lavoro quale pilastro interpretativo del quadro ricostruito dalla Corte costituzionale in materia di “tutela della salute”, trova piena affermazione nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). Giova, a questo fine, procedere ad una lettura capovolta della giurisprudenza della Corte, partendo da una recentissima pronuncia, la n. 62 del 2020, relativa alla legge reg. Siciliana n. 8 del 2018. Nell’esaminare la legge della reg. Siciliana, la Corte Costituzionale ha avuto modo di tornare a pronunciarsi sul sistema di garanzia dei LEA in ambito sanitario, ribadendo l’imprescindibile ricorso al principio di leale collaborazione tra i vari livelli istituzionali coinvolti, nel rispetto delle reciproche competenze.
“La stretta interdipendenza dei parametri costituzionali evocati e delle norme attuative configura il diritto alla salute come diritto sociale di primaria importanza e ne conforma il contenuto attraverso la determinazione dei LEA, di cui il finanziamento adeguato costituisce condizione necessaria ma non sufficiente per assicurare prestazioni direttamente riconducibili al fondamentale diritto alla salute…”
È in questo senso che deve essere ribadito il principio secondo cui, «una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo [il diritto alla prestazione sociale di natura fondamentale, esso] non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali» (sentenza n. 275 del 2016). È evidente che se un programmato, corretto e aggiornato finanziamento costituisce condizione necessaria per il rispetto dei citati parametri costituzionali, la piena realizzazione dei doveri di solidarietà e di tutela della dignità umana deve essere assicurata attraverso la qualità e l’indefettibilità del servizio, ogniqualvolta un individuo si trovi in condizioni di bisogno rispetto alla salute.
In definitiva, l’intreccio tra profili costituzionali e organizzativi comporta che la funzione sanitaria pubblica sia esercitata su due livelli di governo: quello statale, il quale definisce le prestazioni che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire ai cittadini – cioè i livelli essenziali di assistenza – e l’ammontare complessivo delle risorse economiche necessarie al loro finanziamento; quello regionale, cui pertiene il compito di organizzare sul territorio il rispettivo servizio e garantire l’erogazione delle prestazioni nel rispetto degli standard costituzionalmente conformi.
La presenza di due livelli di governo rende necessaria la definizione di un sistema di regole che ne disciplini i rapporti di collaborazione, nel rispetto delle reciproche competenze. Ciò al fine di realizzare una gestione della funzione sanitaria pubblica efficiente e capace di rispondere alle istanze dei cittadini coerentemente con le regole di bilancio, le quali prevedono la separazione dei costi “necessari”, inerenti alla prestazione dei LEA, dalle altre spese sanitarie, assoggettate invece al principio della sostenibilità economica.
È bene ricordare «che la determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, ma che la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il migliore servizio alla collettività» (sentenza n. 169 del 2017).
L’effettività del diritto alla salute è assicurata dal finanziamento e dalla corretta ed efficace erogazione della prestazione, di guisa che il finanziamento stesso costituisce condizione necessaria ma non sufficiente del corretto adempimento del precetto costituzionale. Nei sensi precisati deve essere letta l’affermazione secondo cui «una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto [fondamentale] non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali […]. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione» (sentenza n. 275 del 2016).
La trasversalità e la primazia della tutela sanitaria rispetto agli interessi sottesi ai conflitti finanziari tra Stato e Regioni, in tema di finanziamento dei livelli essenziali, impongono una visione trascendente della garanzia dei LEA che vede collocata al centro della tutela costituzionale la persona umana, non solo nella sua individualità ma anche nell’organizzazione delle comunità di appartenenza. In definitiva, il modulo collaborativo tra lo Stato e le Regioni resta la chiave di volta del sistema delle competenze statali e regionali per la salute.
2.4 Ticket ed accesso alle cure
L’intreccio tra definizione dei LEA e coordinamento della finanza pubblica costituisce il punto di crisi più evidente per la costruzione di un quadro di competenze ben delineato tra Stato e Regioni in materia di tutela della salute. Ce lo dice la stessa Corte costituzionale quando, in tema di ticket, afferma che “l’intreccio e la sovrapposizione di materie non rendono possibile individuarne una prevalente” (sentenza n. 330/2011), “né tracciare una precisa linea di demarcazione tra competenze” (sentenza n. 200/2009).
Con la sentenza n. 325/2011 la Corte ha tuttavia considerato principio fondamentale l’indicazione delle categorie di soggetti esentate dal pagamento del ticket sanitario, per cui la legge regionale non può aggiungere ulteriori categorie da esentare.
La recente sentenza n. 169/2017 ha precisato ancora una volta che “i LEA devono essere determinati dal legislatore statale e garantiti su tutto il territorio nazionale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera m) Costituzione… ma la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra i due soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione. Ne consegue che, fermo restando la discrezionalità politica del legislatore nella determinazione, secondo canoni di ragionevolezza, dei livelli essenziali, una volta che questi siano correttamente individuati, non è possibile limitarne concretamente l’erogazione attraverso indifferenziate riduzioni della spesa pubblica”.
Con la sentenza n. 169/2017 la Corte Costituzionale, nel ribadire che la determinazione dei LEA è un obbligo del legislatore statale, ha precisato che “la sua proiezione in termini di fabbisogno regionale coinvolge necessariamente le Regioni, per cui la fisiologica dialettica tra questi soggetti deve essere improntata alla leale collaborazione che, nel caso di specie, si colora della doverosa cooperazione per assicurare il miglior servizio alla collettività….In definitiva, la dialettica tra Stato e Regioni sul finanziamento dei LEA dovrebbe consistere in un leale confronto sui fabbisogni e sui costi che incidono sulla spesa costituzionalmente necessaria, tenendo conto della disciplina e della dimensione della fiscalità territoriale, nonché dell’intreccio di competenze statale e regionali in questo delicato ambito materiale”.
In tema di determinazione dei LEA la Corte Costituzionale è comunque ferma nel ritenere che la competenza esclusiva statale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto. Inoltre, avendo carattere di trasversalità è idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore statale deve poter porre norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di determinate prestazioni, senza che il legislatore regionale possa limitarle o condizionarle. (sentenze n. 125/2015, n. 111/2014 e n. 164/20102).
“Solo in circostanze eccezionali, e segnatamente quando ricorrano imperiose necessità sociali, il legislatore statale può spingersi oltre la fissazione del livello strutturale e qualitativo delle prestazioni, ad esempio legittimando l’erogazione di provvidenze ai cittadini o la gestione di sovvenzioni direttamente da parte dello Stato” (sentenze n. 273/2012, n. 10/2012). Dunque, la deroga alla competenza legislativa delle Regioni, in favore di quella dello Stato, è ammessa nei limiti necessari ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per qualità e quantità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenza 125/2015). In questa prospettiva, si devono leggere le norme che “prevedono la fissazione di parametri relativi a volumi, esiti e qualità delle cure e ne prescrivono il monitoraggio, intervenendo poi a imporre e disciplinare gli interventi necessari qualora, in determinate strutture, si registrassero scostamenti significativi” (sentenza n. 192/2017).
La recente sentenza n. 117/2018 ha affermato che le Regioni in piano di rientro sanitario non si possono sovrapporre legislativamente e amministrativamente alle funzioni commissariali, ma devono limitarsi a compiti di impulso e vigilanza per la garanzia dei LEA e a una trasparente e corretta trasposizione delle entrate e degli oneri finanziari per la sanità nel bilancio regionale: “Fermi restando l’espresso divieto di integrare i livelli essenziali delle prestazioni fino all’effettivo rientro dal deficit strutturale e il potere di impulso e vigilanza affinché il risanamento finanziario non superi il limite negativo dell’”essenzialità” dell’assistenza, la regione deve cooperare per il superamento della situazione di emergenza.”
Per quanto riguarda l’accesso alle cure, la Corte costituzionale ha ritenuto pienamente legittima la disciplina regionale che garantisce cure urgenti e improcrastinabili a stranieri privi di permesso di soggiorno. (sentenza n. 269/2010).
3.- Le indicazioni di politica economica per la sanità
Coerentemente con gli scopi del presente lavoro, proviamo a rappresentare un quadro conoscitivo di partenza sul binomio strutture sanitarie – servizi erogati. Andiamo a focalizzare l’attenzione sui livelli essenziali di assistenza e sulla mobilità regionale espressione, quest’ultima, del diritto del cittadino di essere assistito in strutture sanitarie di altre Regioni diverse da quelle di residenza.
3.1 I divari territoriali dei Lea
La differenza nei livelli dei Lea fra le regioni italiane testimonia che la Sanità italiana è una sanità diseguale in cui accanto a sistemi sanitari regionali prossimi all’eccellenza convivono sistemi sanitari che faticano a competere anche con i sistemi sanitari dei paesi in via di sviluppo. La tabella 2 mette in evidenza i divari regionali fra i Lea delle regioni italiane.
Tabella 2. – Divari Lea fra le regioni Italiane – Fonte: Ministero della salute
Questi dati mostrano come oggi permangano divari molto forti fra le regioni italiane. L’indicatore Lea del Veneto è del 37% superiore a quello della Calabria e inoltre la Calabria mostra costantemente nel tempo, insieme alla Campania, fra le regioni sottoposte alla Verifica adempimenti la peggiore performance nel rispetto dei Lea. Questi dati mostrano che parlare di Sanità di serie B è già eufemistico. Forse sarebbe più corretto parlare di sanità di serie C.
Queste criticità rivelano la violazione del diritto fondamentale alla salute per delle categorie di persone in situazione di particolare fragilità come i malati di tumore, le gestanti, i disabili e gli anziani. Particolarmente significativo è l’indicatore relativo alle fratture di femore operati entro due giorni. La frattura di femore in soggetti anziani comporta un aumento del rischio di mortalità e di disabilità. Operare una frattura di femore entro due giorni riduce la mortalità e la morbilità del 25%. Se 1 paziente su 4 viene operato entro due giorni ciò significa che il 75% della popolazione anziana calabrese è condannato, nel caso di frattura del femore (patologia che interessa una fascia molto numerosa degli anziani) ad una morte prematura entro l’anno o ad una disabilità permanente che si sarebbe potuta evitare se semplicemente fossero stati rispettati i Lea. La gestione dell’emergenza-urgenza che, com’è fatta oggi, lascia senza assistenza fasce ampie della popolazione. Occorre riprogettare la rete dei servizi territoriali, valorizzando il ruolo dei medici di base e introducendo strumenti di teleassistenza e di telemedicina. Sono interventi a costo zero, che non necessitano di risorse aggiuntive, ma che hanno bisogno solo di capacità di programmazione e di competenza. Se da un lato si può ragionevolmente argomentare che le risorse finanziarie nella sanità non sono mai state poche e troppe volte sono state sprecate, dall’altro lato è possibile affermare che le risorse più scarse della burocrazia regionale sono da sempre state la bassa capacità di programmazione e la limitata competenza nella gestione del complesso sistema dei servizi sanitari regionali.
3.2- La mobilità regionale
La Calabria e la Campania sono anche fra le regioni italiane quelle che presentano i valori più elevati della mobilità sanitaria. Con un valore che si aggira rispettivamente sui 280 e sui 353 milioni di euro l’anno (Tabella 2). Se, invece, consideriamo i valori pro-capite il dato della Calabria diventa eclatante e vale 130 euro per abitante. Come dire che ogni calabrese ha indirettamente una tassa aggiuntiva di 130 euro per la sanità, una tassa figurativa, potrebbe dire qualcuno, una tassa occulta preferisco dire io, perché poi questo ammontare viene pagato in termini di maggiori imposte, maggiori ticket e minor qualità dei servizi e grava maggiormente sulle fasce deboli e sugli anziani, cioè su coloro che maggiormente hanno bisogno di servizi sanitari. Il piano di rientro vale per la Calabria circa 80 milioni di euro, cioè meno di un terzo di quanto costa la mobilità sanitaria. Ed è ben chiaro che basterebbe abbattere di appena un terzo la mobilità sanitaria per non aver più bisogno di piani di rientro.
Se poi andiamo a guardare quali sono le regioni che beneficiano della mobilità sanitaria troviamo curiosamente Lombardia ed Emilia Romagna, le regioni che in una certa misura si possono considerare come azioniste di maggioranza dei due raggruppamenti elettorali che a fasi alterne hanno governato l’Italia negli ultimi 25 anni. Diceva qualcuno che a pensare male si fa peccato, ma non si sbaglia mai e, in questo caso, la considerazione che nasce spontanea sull’impostazione delle politiche sanitarie nazionali, piani di rientro inclusi, è quella che queste politiche siano state costruite su misura e a vantaggio della sanità dell’Emilia Romagna e della Lombardia.
I successi della sanità dell’Emilia e della Lombardia sono anche finanziati dalla mobilità sanitaria di Calabria, Sicilia, Puglia, Campania e Lazio. E malgrado questo obolo versato, queste regioni vengono costantemente additate al pubblico ludibrio come regioni inefficienti. Se andassimo ad indagare sulla tipologia di prestazioni erogate in regime di mobilità sanitaria, troveremmo probabilmente che un buon 50% riguarda DRG (DRG, Raggruppamenti omogenei di diagnosi) che avrebbero potuto efficientemente essere erogati nelle strutture sanitarie della provincia di residenza. E allora una prima proposta di buon senso sarebbe quella di eliminare il perverso piano di rientro che di fatto relega la sanità delle regioni interessate in un limbo in cui mancano le risorse per i servizi essenziali e limitare la mobilità sanitaria solo a particolari DRG. Per gli interventi e gli esami di routine il servizio sanitario nazionale non dovrebbe rimborsare le spese fatte fuori regione.
Tab.3.- Valori della mobilità sanitaria regionale – anno 2018 – Fonte: Fondazione Gimbe
Conclusioni
L’excursus sui principi elaborati dalla Corte Costituzionale, calibrato sui quattro ambiti materiali sopra individuati permette di svolgere alcune riflessioni.
Il quadro che ne discende conferma come il punto di maggior criticità sia rappresentato dai livelli essenziali di assistenza in corrispondenza dei quali la Corte Costituzionale ha espresso una riserva netta sulla applicazione di politiche di spending review strutturali che ne impediscano la reale fruizione.
Una volta definiti, i livelli essenziali di assistenza, vale a dire le prestazioni ed i servizi che lo Stato è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di partecipazione (ticket), devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale in modo uniforme.
In ciascuno dei tre ambiti: quello della prevenzione collettiva, quelli dell’assistenza distrettuale e dell’assistenza ospedaliera, i livelli di assistenza devono trovare, innanzitutto, adeguate risorse finanziarie, ripartite tra le Regioni secondo criteri territoriali equi. Ma devono anche poggiare su modelli di organizzazione territoriali efficienti capaci di utilizzare le risorse. Da qui la necessità di indagare a fondo il meccanismo di distribuzione delle risorse del fondo sanitario nazionale, ma anche di individuare parametri di efficiente organizzazione del servizio su base territoriale.
Il quadro giuridico condiziona il sistema sanitario dal lato dell’offerta; con l’atto di accreditamento la Regione ne verifica il possesso di standard qualitativi, organizzativi (figure professionali abilitate ed in numero idoneo all’attività da svolgere) e strutturali (metri quadrati, sale e spazi, assenza di barriere architettoniche…), equiparando al pubblico le strutture ed i professionisti del privato.
Il contenzioso costituzionale in questo ambito materiale segnala le criticità legate alla fissazione di requisiti minimi validi per tutto il territorio nazionale, dove la norma regionale diventa strumentale al tentativo di alleggerire i costi di struttura prodotti dall’ordinamento.
Tentativo che è naufragato anche per effetto della posizione rigorosa assunta dalla Corte Costituzionale che ha progressivamente chiuso gli spazi di autonomia regionale consolidando il ruolo dello Stato nel dettare i principi fondamentali in materia di Tutela della salute ed arginandone gli eccessi con il richiamo ai diritti fondamentali di assistenza (in materia di LEA) e di leale collaborazione.
La presentazione dei primi indicatori di politica economica è però schiacciante nel rappresentare una situazione di divario regionale evidente, sia nei Lea che nella mobilità regionale. La considerazione fondamentale che emerge da queste analisi e che occorre ripensare il modello del regionalismo italiano e soprattutto correggere alcune anomalie nate dalla riforma del titolo V della Costituzione che hanno dimostrato limiti evidenti nell’applicazione alla sanità.
Il Covid-19 ha contribuito a mettere a nudo chiaramente tutta la debolezza di un sistema che dietro un apparente aura di efficienza, nascondeva i limiti di un modello organizzativo che non aveva il paziente come riferimento finale. Si è costruito un sistema ospedalicentrico misto pubblico privato, che insegue i DRG più sostanziosi e che drena risorse, attraverso la mobilità sanitaria, ad altre regioni La sanità territoriale viene penalizzata e ridotta al lumicino, lasciando ai pronto soccorso degli ospedali il compito di diventare il trait d’union fra il paziente e il sistema sanitario.
Un modello, in sostanza, che tendeva sostanzialmente ad ampliare i divari regionali della sanità piuttosto che ridurli.
Nella gestione della pandemia è stato immediatamente evidente che è difficile avere una strategia di contrasto unica, che è pur necessaria, se 20 regioni possono decidere in maniera difforme, ma a ben pensare anche in condizioni di normalità una sanità regionale non fa che amplificare le disparità regionali, alimentando una competizione sulle risorse fra le diverse regioni il cui effetto è la mobilità sanitaria. La ricetta è quindi quella di tornare ad una sanità nazionale.
*Anche se frutto del lavoro comune ai soli fini dell’attribuzione delle parti Maurizio Priolo ha curato la redazione del paragrafo 2, Domenico Marino la restante parte del lavoro
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9. Report Osservatorio GIMBE 2/2020
[1] nostre elaborazioni su dati estratti dalla banca dati sul “Contenzioso Costituzionale – Titolo V curata dalla Regione Emilia Romagna.
FONTE: economiaepolitica