Gli atti processuali e il Braille. di Gianluca Fava

Chi ha sentito parlare di Braille almeno una volta, alzi la mano! Si tratta, com’è ben noto, del sistema di scrittura e lettura a rilievo per non vedenti, messo a punto nella prima metà del XIX secolo dal francese Louis Braille.
Il metodo consiste in simboli formati da un massimo di sei punti, che vengono impressi con un punteruolo su fogli di carta spessa e orientato, da chi scrive, entro piccole caselle. I caratteri di questo “sistema” – che alcuni chiamano alfabeto, ma che è più corretto definire “codice” – possono anche essere riprodotti mediante una speciale macchina “dattilografica” detta “dattilobraille”, formata a sua volta da sei tasti, per cui ogni tasto imprime un punto sulla carta, più il tasto spazio per separare le varie parole.

A causa del limitato numero di simboli disponibili nel codice Braille, esistono diversi significati per ogni carattere, a seconda dell’argomento trattato e del linguaggio usato; il Braille, infatti, si adatta anche a rappresentare musica, matematica, greco classico, chimica e altro ancora.
Oggi, però, esso sta subendo un vero e proprio attacco da chi, o perché magari abbagliato dal “progresso” imposto dalla tecnologia o, più probabilmente, per mascherare la propria ignoranza in materia, lo vede ormai superato e lo vorrebbe addirittura abolire. Perché allora non abolire tutti i tipi di penne, dal momento che esiste il computer?

Certo, la tecnologia sta migliorando nettamente la vita di tutti e quindi anche delle persone con disabilità visiva, ma gli assertori della “teoria abolizionista” dimenticano che, anche tra gli strumenti tecnologici, ce n’è uno, ad esempio, che permette di leggere cosa appare sullo schermo di un comune computer in maniera più discreta delle pur diffuse sintesi vocali; in che modo? In Braille! Si sta parlando del display Braille, che oggi è presente sul mercato con vari tipi e modelli.

Fortunatamente, però, le Istituzioni italiane non considerano il codice Braille così obsoleto; infatti, il 3 agosto 2007, il nostro Parlamento, con la Legge 126, ha istituito la Giornata Nazionale del Braille, ricorrenza civile appena passata, il 21 febbraio scorso, momento di sensibilizzazione dell’opinione pubblica nei confronti delle persone con disabilità visiva, in coincidenza con la Giornata Mondiale della Difesa dell’Identità Linguistica promossa dall’Unesco.

E tuttavia, nonostante l’importanza del Braille, in molte realtà il codice resta ancora poco conosciuto e non applicato, come in numerose scuole o sulle stesse scatole di medicinali, dove ci sono indicazioni in Braille di tutto, ma non di quella più importante: la scadenza; e ciò a dispetto anche della giurisprudenza.

Ma vi è di più: il codice in questione latita anche nelle aule di tribunale, dove a imputati e indagati non vedenti è ancora negata la trascrizione in Braille degli atti processuali.

A tal uopo, si vuole affermare che l’articolo 109 del Codice di Procedura Penale prevede, per gli imputati appartenenti alle minoranze linguistiche riconosciute, la traduzione degli atti processuali nella loro lingua, prevedendone, in caso contrario, addirittura la nullità.

Tuttavia, la succitata norma ignora che un imputato non vedente, pur se appartiene ad una minoranza linguistica riconosciuta, non possa, ugualmente, prendere conoscenza degli atti processuali notificatigli, atteso che la difesa penale è personale e il Braille – pur non essendo una lingua ma un metodo di scrittura – a una lingua deve necessariamente essere equiparato, essendo l’unico “sistema” veramente idoneo per mettere un disabile visivo a conoscenza di un documento scritto.

Inoltre, va precisato che, se è vero come è vero che una tale situazione può penalizzare, ad esempio, anche un avvocato privo della vista e di fatto almeno in parte lo fa, è anche vero che un imputato con il medesimo handicap ha il diritto e la possibilità di farsi assistere da un professionista vedente, ma non può in nessun modo cambiare il proprio “status” processuale.

D’altra parte, un’importante pronuncia della Quarta Sezione del Consiglio di Stato (Sentenza n. 2345 del 19 aprile 2000), in relazione al problema della tutela delle minoranze linguistiche, nel procedimento innanzi la Commissione Centrale di riconoscimento dello status di rifugiato politico, ha ribadito con chiarezza e nettezza il diritto anche dello straniero ad essere posto nella condizione di comprendere ogni atto che, provenendo sia da un’Autorità Giurisdizionale che da Organi Amministrativi (nella fattispecie, appunto, la Commissione Centrale per il riconoscimento dello status di rifugiato politico), abbia forza e capacità di incidere su un suo diritto soggettivo.

Non solo: anche la Corte Costituzionale, con la nota Sentenza n. 10 del 1993, ha affermato il principio che la mancanza di un obbligo espresso di traduzione nella lingua nota all’indiziato, non può affatto impedire «l’espansione della garanzia assicurata con l’art. 143 co. 1 c.p.p., in conformità ai diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali, ratificate in Italia e dall’art. 24 co. 2° della Costituzione».

Il principio cesellato dalla pronuncia del Giudice delle Leggi integra, indubitabilmente, il diritto più ampio e completo alla difesa, con ciò intendendosi la possibilità per l’indagato/imputato di recepire e comprendere espressamente le accuse mossegli, nonché la relativa violazione di legge e, su tale abbrivio, poter contestare e contraddire efficacemente le stesse.

E ancora, la giurisprudenza di legittimità ha poi affermato (Corte di Cassazione, Sezione III Sentenza n° 1527 del 8/9/1999) che anche l’ordinanza di custodia cautelare, come il decreto di fissazione del giudizio, è un atto di fronte al quale l’indagato straniero che non comprenda la lingua italiana può essere pregiudicato nel suo diritto di partecipare al procedimento a suo carico, libero nella persona. Questo in quanto non comprendendo cosa in esso scritto, non sarebbe posto in grado di valutare né quali siano gli indizi ritenuti a suo carico (e quindi difendersi con riferimento agli stessi), né se sussistano o meno i presupposti per procedere all’impugnazione dell’ordinanza per nullità ai sensi dell’articolo 292, comma 2 del Codice di Procedura Penale.

Successivamente, la Suprema Corte ha avuto modo di esprimere il proprio pensiero sull’ispirazione data dalla succitata Sentenza 10/93, sia attraverso la Quarta sezione nel 2004, sia attraverso la Sentenza n. 47035 della Quinta Sezione nel medesimo anno, soffermandosi sul provvedimento custodiale.

Infine, anche l’Unione Europea (Direttiva n. 64 del 20 ottobre 2010 e Direttiva n. 13 del 22 maggio 2012) si è espressa esplicitamente in favore dell’assistenza linguistica dei cittadini stranieri nel processo penale.

Quanto sin qui esposto, in un sistema processual-penalistico che, giustamente, tutela i diritti processuali di appartenenti a minoranze linguistiche riconosciute e stranieri, non può che rafforzare il diritto dell’indagato o imputato cieco a ricevere gli atti processuali in Braille. Infatti, se per il cittadino straniero la non comprensione della lingua italiana è il «presupposto indispensabile perché vi sia l’obbligo di traduzione dell’atto processuale», atteso che anche la Corte Costituzionale, con la Sentenza n. 227 del 2000 ha affermato che la garanzia dell’effettiva conoscibilità dell’atto viene assicurata, nell’inevitabile limite del possibile, dalla traduzione nella lingua conosciuta o comunque in una delle lingue internazionalmente più diffuse e più accessibili al destinatario – ciò che soddisfa anche le condizioni previste dall’articolo 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950 e dall’articolo 14 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici del 1966 – la trascrizione in Braille dello stesso atto, deve avere come unico presupposto la cecità, la quale, ovviamente, deve non solo essere ampiamente provata, ma anche documentata.

D’altra parte, se un’azienda si ritiene eticamente veramente sana non solo dagli utili ottenuti, ma anche dalla qualità del prodotto, dal benessere garantito ai propri dipendenti e per il fatto che per generare quei redditi non ha fatto luogo allo sfruttamento di esseri umani, una Società, per definirsi veramente “giusta”, deve porre molta attenzione, risolvendoli, ai problemi dei concittadini più bisognosi, uscendo definitivamente da una cultura del “diverso” che in Italia è ancora molto mediocre.

Per raggiungere tale risultato, però, se da un lato lo Stato latita colpevolmente con un’irritante vacatio legis, dall’altro non può e non deve continuare a farlo anche con un’assurda “assenza” giurisprudenziale, atteso che proprio la Giurisprudenza, in molti casi, corre giustamente in aiuto del Legislatore, colmando le lacune di quest’ultimo, e spesso “costringendolo” a legiferare.

Altrimenti, a cosa è servita l’istituzione di una Giornata Nazionale del Braille, se poi l’importante metodo di scrittura non viene utilizzato per il rispetto dell’unico vero diritto di un imputato cieco, ovvero la conoscenza degli atti processuali che riguardano la sua posizione e quindi la sua difesa?

L’auspicio, pertanto, è che almeno l’UICI (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti) si batta contro questa palese violazione dell’articolo 13 (Accesso alla giustizia) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia con la Legge dello Stato 18 del 2009, perché tutti i cittadini sono uguali davanti alla Legge e non solo quelli “normodotati”.

Gianluca Fava è avvocato. Componente dell’UICI di Napoli (Unione Italiana dei Ciechi e degli Ipovedenti).

fonte: superando.it

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